Andrea Pubusa
Cosa fare per affrontare lo spopolamento dei paesi? domanda l’amico Salvatore Cubeddu sul blog di Vito Biolchini. Marinella Orunesu di Bitti ha un’idea “i bittesi adottino Bitti”. E’ in contatto con Bachisio Bandinu e Nando Buffoni, paesani eccellenti. E loro ci stanno, aderiscono senza riserve e in modo propositivo. Leggiamo le proposte dei bittesi Bachisio Bandinu (“Su bonu ‘achere pro firmare s’isperdimentu”) e dell’economista Nando Buffoni (“Contro lo spopolamento dobbiamo fare da soli”) e Salvatore Cubeddu immagina “tutto quello che potremmo pensare, ragionare e fare, le migliaia di fuorusciti dai nostri paesi, che scelgono di esplicitare operativamente il proprio legame, accettati da chi è restato, a sua volta lieto di collaborare con chi vuole in qualche modo ‘ritornare’”.
Ma chi vuole tornare? Conosco un bittese, ben inserito a Cagliari, e, come faccio con tutti quelli che vengono de is biddas, chiedo se tornano al loro paese e se hanno casa nel borgo natio. Il mio conoscente ha casa, “ma - mi dice - torno così poche volte, che, quando mi capita, vado in albergo. Non posso stare qualche giorno in una casa disabitata per gran parte dell’anno“. E l’ultima volta che l’ho visto, la ferale notizia: “l’ho messa in vendita, ma è difficile liberarmi della casa, molti vogliono vendere, ma nessuno compra“, ossia nessuno torna.
Misuro questa impietosa realtà con le parole di Salvatore Cubeddu: “Paese dopo paese, che già occasioni dello stesso tipo hanno istituito. Un movimento in estensione, una collaborazione tra paesi, appuntamenti che si moltiplicano. Un “sa die de sa Sardigna” come ritorno a casa. Torraus a domo. Noi che siamo fuori, facciamoci “riadottare“ dalla nostra comunità. Ed essa, e tutte, ci riaccolgano. Ci pensate, sembra di sognare: non sarebbe “un miracolo”?”.
Più che un miracolo è un sogno. A nessuno si può impedire di farlo, tanto meno a una bella persona come Salvatore.
“Cales poten essere sos remedios?” si chiede invece con realismo Bachisio. “Sos tremitzas abitantes de oje potet esser unu numeru chi annat bene, in su sensu chi currisponnet a sas possibilitates economicas, a sas risorsas territoriales, lavorativas e umanas, oje a s’istatu presente. Su bussu est de non minimare dae sos tremitza. Su jocu ressessit a tzertas conditziones: o bi naschit prus pitzinnos novos, pro ugualare sos mortos, o bi ‘enit prus tzente dae foras, o bi restat prus pessones in vidha imbetzes de si nche annare. Bisontzat de ‘achere una pulitica chi vavorat custas possibbilitates: premios pro sas naschitas e pro cullevare sos pitzinnos, imbentare attivitates novas e affortire sas esistentes, in modu chi sos tzovanos resten in bidha. Pro narrere: totu sos impiegatos de sa Regione, de sas ASL e de atteros servrtzros, poten travagliare in domo issoro in bidha chin su “telelavoro”. Sos chi travagliana in Nugoro o in bidhas accurtzu, organizannesi, poten torrare donzi die a bidha, comente ‘achen sos durgalesos, sos olianesos e sos mamujadinos”. E se costoro, invece, preferiscono non solo lavorare ma anche abitare in città?
Comunque questo non si può fare per l’allevamento, il teleallevamento non è stato ancora inventato. Incalza, propositivo, Bandinu con la sua bella scrittura in lingua: ”Pichemas in cussideru su pastoriu: cantos tzovanos oje essi n a campu? O amus a aere cuiles de rumenos, macedones e albanesos? Comente imbentare unu pastoriu novu chi rennat de prus e chi siat cumbeniosu. Pastores chin su diploma o chi sa laurea, pro no essere solu murghitores aspeandhe su preju de piazza. In tempos nostros bisontzat de ischire ite produire e comente produire e pro chie, in manera de ‘ennere su prodottu in su marcatu mondiale, attentos a sos bisontzos semper novos de sa populatzione e sa modas alimentares chi cambian de continuo. Vitzi potet ‘antare artigianatu de oraria, de tessitura, siendhas de mastros de linna, de pedhe, de pannu e de atteras attivitates chi no accudan solu a sos bisontzos de sa ‘idha ma s’allarghen a marcatos antzenos e a su turismu? Custu devet essere s’obbietivu”. Che bello, ma “se così fan tutti“, ossia tutti i paesani di tutti i paesi, chi compra questa bella produzione?
Mì incuriosisce il pensiero di Buffoni e vado alla fonte. Ed ecco le sue parole.“L’adozione” può essere uno strumento molto utile per sensibilizzarci, renderci disponibili e impegnarci “a fare qualcosa”. Ite? Alcune idee, per il momento, las mantentzo in sa butzacca. Qualche altra, che è stata lanciata da amici la posso indicare. Un raduno di Bittesi, provenienti da tutto il mondo, ogni due anni, accompagnato da eventi, ad esempio: premio letterario di racconti sulla loro emigrazione e integrazione nei paesi che li hanno accolti. Questo genere potrebbe essere esteso ad altri settori oltre a quello letterario. Un altro esempio: molti di noi nella loro vita di emigrati hanno raccolto strumenti interessanti, anche – legalmente – reperti archeologici che sarebbero disposti a donare a un eventuale, chiamiamolo “museo”, che eventualmente si potesse creare a Bitti, accompagnando il reperto con una descrizione di come è stato acquisito (dal “dente” di capodoglio che nelle isole Fiji veniva usato come moneta, alla lancia dell’altopiano dell’Etiopia utilizzata per uccidere leoni da un vecchio pastore, a reperti pre colombiani dell’America Centrale)”.
Con tutto il rispetto mi sembra bello, ma poco. Per vedere questo museo il mio amico bittese non avrebbe necessità di tornare a vivere a Bitti e neanche di mantenere casa. Forse son migliori le idee che Buffoni “mantentze in sa butzacca”, chissà. Forse farebbe bene a tirale subito fuori: fin qui tante promesse, ma pochi risultati, anche sul piano della proposta.
Sono un po’ sconsolato. Volevo qualche idea per il mio paesello, ma questi sono desideri, sogni.
Ne parlo, con un compagno non pentito. Gli dico che mi sembrano discorsi un po’ campati per aria. E lui pronto: ”bisognerebbe fare una radicale riforma agraria. Riaccorpare le terre, toglierle a chi le ha abbandonate, creare occasioni di lavoro moderne e di mercato per chi ci lavora o intende lavorarci. Un po’, per capirci, come l’elettrificazione e la meccanizzazione delle campagne ai tempi di Lenin”. ”Idee e linguaggi d’altri tempi“, obietto, deciso. “Sì - risponde lui - per salvare i nostri paesi ci vorrebbe il socialismo. Un’idea espulsa dal linguaggio comune”. “Beh - ribatto un po’ spazientito - non ti sembra un volo nella fantasia?“. E lui, sicuro: “certamente, ma la mia ipotesi è molto, molto più realistica dei sogni di Salvatore, Bachisio e Nando”. Ci rifletto e penso che, tutto sommato, ha proprio ragione lui. Per salvare i nostri paesi ci vorrebbe un rivolgimento radicale.
2 commenti
1 Tonino Dessì
1 Marzo 2016 - 15:20
Sardegna interna: soviet più elettrificazione?
In effetti nell’ormai lontano 1998 (Giunta Palomba, Assessore alla programmazione Scano, Capo di Gabinetto del bilancio il sottoscritto), proponemmo, nel primo Documento regionale di programmazione economico-finanziaria, un programma, accompagnato da uno stanziamento in legge finanziaria, per promuovere il riaccorpamento della proprietà fondiaria rurale.
Ma erano ancora tempi di (buoni) propositi di “riforme strutturali”.
Poi non so più che fine abbia fatto quell’idea.
2 “La Sardegna che vogliamo – Quale sviluppo per la Sardegna?” | Aladin Pensiero
2 Marzo 2016 - 09:19
[…] di Andrea Pubusa su Democraziaoggi […]
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