Cosa si può fare per combattere la disuguaglianza?

25 Febbraio 2016
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Gianfranco Sabattini

Anthony B. Atkinson, professore di Economia politica dell’Università di Cambridge e autore di numerose pubblicazioni sul problema della distribuzione del reddito e su quello della povertà, ha pubblicato di recente il libro “Disuguaglianza. Che cosa si può fare”; in esso, il professore inglese tratta l’annoso problema della disuguaglianza distributiva in modo innovativo, fuori dal modello della teoria economica tradizionale, tenendo conto delle ricerche empiriche più recenti sulle modalità prevalenti di distribuzione del reddito, ma anche dei molti elementi extraeconomici che concorrono a determinare il livello della disuguaglianza.
Nel libro, Atkinson, dopo un’analisi puntuale delle ragioni per cui si deve essere preoccupati della disuguaglianza distributiva e della sua relazione coi sottostanti valori sociali, formula delle proposte politiche concrete, ritenute idonee a “produrre un vero spostamento nella distribuzione del reddito in direzione di una minore disuguaglianza”; lo fa, con spirito ottimistico, basandosi sulla lezione della storia, nella consapevolezza che, nonostante la gravità del problema distributivo nel mondo moderno, il futuro dell’umanità sia ancora nelle mani degli uomini, in considerazione del fatto che essi, collettivamente, non sono del tutto sprovveduti davanti alle forze, a volte, da essi stessi ritenute fuori dal loro controllo.
Secondo Atkinson, evocando la parola disuguaglianza, viene fatto di pensare alla “possibilità di avere un’”uguaglianza di opportunità’”; nella moderna letteratura scientifica sull’argomento, fra le determinanti degli esiti economici si distinguono quelle che sono dovute a “circostanze” al di fuori del controllo personale (dovute, ad esempio, alle origini familiari) e quelle dovute all’”impegno” del quale è responsabile ogni singolo individuo. L’uguaglianza delle opportunità ricorre quando le circostanze al di fuori del controllo personale non hanno alcun ruolo nelle determinazione del risultato finale conseguito da ogni individuo.
Il concetto di uguaglianza di opportunità, per quanto attraente, non è sufficiente – sostiene Atkinson – ad assicurare l’uguaglianza dei risultati economici finali; ciò perché la disuguaglianza di opportunità è un concetto ex ante, nel senso che tutti devono avere un punto di partenza uguale e disporre di ”un campo di gioco livellato” (level playng field); ma una parte notevole del contenimento della disuguaglianza ha a che fare con l’attività ridistributiva degli esiti ex post. E’ dunque sbagliato pensare, come fa la maggior parte degli economisti, che la disuguaglianza degli esiti sia irrilevante, se si pensa che, una volta assicurata l’uguaglianza di opportunità, debbano essere trascurati gli esiti finali. Questo modo di pensare è, secondo Atkinson, errato per tre motivi.
In primo luogo, perché è importante considerare ciò che può accadere all’individuo, anche se dotato di pari opportunità, durante il conseguimento del suo esito finale, considerato che, pur impegnandosi a fondo, lo stesso individuo può essere vittima di un qualche “infortunio” e finire in povertà. In secondo luogo, perché, parlando di uguaglianza di opportunità, occorre distinguere quella “competitiva” da quella “non competitiva”; quest’ultima garantisce che “tutti abbiano la stessa possibilità di realizzare i loro progetti di vita indipendente”, mentre la prima, oltre a garantire a ciascuno le stesse possibilità di qualunque altro nella realizzazione dei propri progetti, assicura ricompense ex post diseguali, la cui struttura è in gran parte costruita sulla base di convenzioni sociali. Queste, ad esempio, possono stabilire che chi ricopre un dato status ruolo sociale consegua un certo livello rimunerativo; pertanto, il modo in cui sono definiti i livelli rimunerativi determina inevitabilmente la differenza degli esiti finali. Infine, il terzo motivo per cui è errato trascurare la disuguaglianza degli esiti è che essa influenza direttamente l’uguaglianza di opportunità per le generazioni a venire. “Gli esiti ex post di oggi danno forma al campo di gioco ex ante domani: chi beneficia della disuguaglianza di esiti oggi può trasmettere un vantaggio iniquo ai propri figli domani”; perciò, se si vuole garantire l’uguaglianza di opportunità alle prossime generazioni ci si deve preoccupare necessariamente dell’uguaglianza degli esiti di oggi.
A parere di Atkinson, però, la necessità di ridurre la disuguaglianza non dipende dalle sole conseguenze negative sinora descritte; esistono anche ragioni intrinseche che giustificano l’assunto, inquadrabile in una teoria generale della giustizia, della negatività di una disuguaglianza degli esiti eccessiva. In passato, il problema distributivo risentiva della prevalenza dell’utilitarismo; ma, per via del suo interesse esclusivo per la somma delle utilità individuali e della mancata considerazione del come essa si distribuiva a livello interpersonale, esso è stato progressivamente abbandonato, sino ad arrivare alla visione di John Rawls che, con il suo libro “Una teoria della giustizia”, ha prodotto un ampio dibattito, portando ad inquadrare il problema della giustizia sociale in termini di accesso ai “beni principali o primari”, quali i diritti di libertà, le opportunità e i poteri, il reddito e la ricchezza.
Come ha sostenuto Amartya Sen, la teoria rawlsiana della giustizia, pur trascendendo i limiti propri dell’utilitarismo, ha mancato di tenere nel giusto conto le esistenti differenze personali date dalla capacità di “convertire” i beni primari in “buona qualità della vita”. Sen, perciò, ha proposto di connotare la giustizia sociale, non in termini di beni primari, ma in termini di “capacità”, sottolineando non solo l’importanza che i beni possono avere per i singoli soggetti nelle loro particolari circostanze, ma anche delle capacità fisiche degli stessi soggetti di fruire delle opportunità e possibilità offerte dai beni in loro possesso. Entro un simile quadro di riferimento, il reddito diventa conseguentemente solo una delle dimensioni che stanno alla base di un’effettiva equità sociale, per cui – afferma Atkinson – “le differenze di reddito devono essere interpretate alla luce delle diverse circostanze e delle opportunità sottostanti”.
Nonostante i molti problemi sociali connessi alla presenza all’interno dei moderni sistemi economici di un eccesso di disuguaglianza distributiva, tradizionalmente gli economisti non li hanno mai messi al centro delle loro analisi, ritenendo che la professione economica non debba affatto curarsi della disuguaglianza distributiva. Atkinson, muovendosi al di fuori del modello tradizionale della teoria economica, ritiene invece che le problematiche distributive debbano interessare la professione economica, innanzitutto perché la distribuzione e la ridistribuzione del reddito totale hanno un effetto profondo sulla natura della società; in secondo luogo, perché la produzione totale del sistema economico è influenzata dalla distribuzione del reddito.
Per ridurre in modo sostanziale la disuguaglianza, Atikinson avanza un insieme integrato di proposte, le più significative ed incisive delle quali riguardano i seguenti aspetti: l’aumento del livello occupazionale, attraverso una direzione politica dell’innovazione tecnologica, consona a sostenere l’aumento dei posti di lavoro; l’attuazione di una politica salariale nazionale fondata su due elementi: un salario minimo di sussistenza e “un codice di buone pratiche per le retribuzioni al di sopra del minimo, concordato nell’ambito di una ‘conversazione nazionale’”; l’offerta di “una dotazione di capitale (eredità minima) assegnata a tutti all’ingresso nell’età adulta”, ovvero l’erogazione di una forma limitata di reddito di cittadinanza; l’introduzione di aliquote fortemente progressive per l’imposta sui redditi delle persone fisiche, fino ad un’aliquota massima del 65%, unitamente all’allargamento della base imponibile.
Le obiezioni solitamente avanzate a tali proposte affermano che “una riduzione della disuguaglianza si può ottenere solo pagando lo scotto di una diminuzione dell’output economico o di un rallentamento della crescita economica”, nonché quello di sacrificare l’efficienza per avere una maggiore giustizia economica. A queste obiezioni, Atkinson oppone due risposte: la prima rileva che la possibilità che la “torta” (cioè, la produzione totale complessiva) diventi più piccola, in conseguenza dell’accoglimento delle proposte, non costituisce un’argomentazione decisiva: una torta più piccola, ma distribuita più equamente, può trovare compensazioni all’interno della più generale teoria della giustizia sociale precedentemente ricordata; la seconda considerazione è che equità ed efficienza “possono puntare nella stessa direzione”, se la soluzione del problema della giustizia sociale è affrontato all’interno di un modello allargato alle considerazioni svolte sulla definizione di equità sociale, piuttosto che all’interno di un modello costruito secondo i canoni della teoria economica standard.
Atkinson conclude il suo discorso sul problema della disuguaglianza distributiva, osservando che il suo riferimento al ruolo dell’azione politica potrebbe essere esposto alla critica di non avere tenuto conto dell’insegnamento della storia, ovvero del fatto che molte iniziative governative per rimuovere o affievolire la disuguaglianza sono fallite disastrosamente; al riguardo, l’economista di Cambridge ricorda, innanzitutto che molti interventi governativi attuati per ridurre la disuguaglianza sono perfettamente riusciti (come, ad esempio, i programmi attuati nell’immediato secondo dopoguerra); in secondo luogo, che il fallimento dei programmi governativi, quando c’è stato, è imputabile all’assenza di una preliminare programmazione e consultazione e di un generalizzato dibattito pubblico; infine, che i governi non sono gli unici destinatari delle sue proposte, perché ad esserlo sono anche gli individui che in ultima istanza sono chiamati a giudicare se le “proposte avanzate saranno realizzate e se le idee espresse verranno perseguite”. Se tutti i componenti del sistema sociale, attraverso il dibattito pubblico e l’uso del loro voto saranno disposti ad usare le maggiori potenzialità del sistema economico per affrontare le sfide dell’iniquità distributiva e per accettare che “le risorse vadano condivise in modo meno disuguale, ci sono motivi per essere ottimisti”.
E’ difficile non concordare con la diagnosi svolta da Atkinson sugli effetti negativi della persistente e crescente disuguaglianza distributiva, propria delle economie avanzate; il maggior pregio, anche se non l’esclusivo, della sua analisi e delle sue proposte è rappresentato dal fatto che, a differenza del pessimismo di tutti i “decrescisti” (ovvero, di coloro che, affrontando il problema dei guasti del modo di funzionare dei sistemi capitalistici moderni, non sanno altro che proporre di mettere un limite alla crescita, senza indicare come affrontare il problema del lavoro e dell’occupazione), Atkinson non predica la necessità di un ritorno nostalgico al passato, per essere gratificati da una immaginifica “convivialità”, ma sottolinea con forza la possibilità che gli uomini hanno, facendo uso della loro razionalità e dei mezzi politici e materiali a disposizione, di porre rimedio ad uno dei più importanti mali sociali attuali che affliggono le collettività del nostro tempo.

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