Tonino Dessì
Non è che fin dalla lontana infanzia non mi sia chiesto le ragioni di una particolare mentalità che pare allignare in alcune aree culturali, sociali e territoriali della Sardegna, nelle quali sono nato e cresciuto. Però anche dentro la mia famiglia le narrazioni sono state differenti e le mie personali esperienze sono molto variegate, tanto che ho estrema e permanente difficoltà a identificare quella mentalità in tutta e nella sola Barbagia, in tutto e nel solo Nuorese.
Mio padre, sorgonese e figlio di pastore, pastore anche lui prima di partire per la guerra, mi diceva che nel suo paese di montagna, Sorgono, una certa forma di balentìa, ossia di comportamento baldanzoso e ribelle, era accettata fino a una certa età, dopo la quale, se non ti eri trovato un lavoro onesto e se non avevi messo su gregge, terreno e famiglia, non eri un balente, ma uno da additare e screditare come un fallito, un povero coglione, peggio ancora se eri così fesso da accapigliarti con la legge.
Mamma invece raccontava del suo paese di origine, Luras, del tutto fuori dalla Barbagia, dove c’erano le faide, quando lei era bambina, scandite dall’uso della dinamite delle cave, che non lasciava in pace, tanto poteva essere l’odio, i morti nelle loro tombe. A Nuoro, nella primissima fase della mia vita, nel centro antico, l’affermazione del proprio valore in termini di prevalenza e persino di prevaricazione fisica, tra ragazzi e perfino tra giovani, era un dato considerato normale, tuttavia le famiglie contenevano e all’occorrenza reprimevano le manifestazioni estreme (”dare scandalo”, anche in questo campo della vita sociale, era considerato riprovevole).
Nel quartiere popolare in cui sono successivamente cresciuto, invece, il contrasto tra ragazzi e tra giovani, provenienti da famiglie originarie di diversi luoghi dell’intera Sardegna, aveva le caratteristiche tipiche della violenza teppistica e brutale delle periferie. Mediazioni non ce n’erano. I miei cugini inurbati a Cagliari mi dicevano però che anche lì era uguale, forse peggio.
Alle scuole medie, l’epopea dei banditi la vissi osservando i baschi blu che atterravano con gli elicotteri nel campo sterrato ai limiti del mio quartiere, attraversandolo poi nelle autocolonne con le mitragliatrici sul tettuccio degli autocarri. Erano i banditi che sequestravano i ricchi: un banditismo “del boom postbellico”, alla fin fine. Da rotocalco, dove finivano i racconti di quei delitti e le fotografie dei banditi.
Nel periodo del liceo, ci pareva che la protesta civile della gente di Orgosolo a Pratobello, l’arrivo della fabbrica a Ottana e l’ingresso degli studenti al fianco degli operai nella scena dei protagonisti sociali e politici avesse spazzato totalmente via, con una nuova egemonia culturale, dai quartieri di Nùoro come dalle piazze dei paesi, modelli di conflittualità individuale e collettiva ormai obsoleti.
E questa era anche l’impressione che per anni coltivai da una certa distanza, quando giunsi a Cagliari, all’Università. Furono tuttavia quelli, gli anni nei quali iniziarono, a ondate, gli attentati contro gli amministratori locali. Gli anni ‘70 e ‘80 furono caratterizzati dall’avvio delle pianificazioni urbanistiche e dell’adeguamento delle regolamentazioni edilizie nei comuni dell’interno della Sardegna e negli attentati sembrava di poter leggere con chiarezza la resistenza di singoli e di pezzi delle società locali a questa nuova legalità. Gli anni ‘90 e, direi, tutto il periodo successivo, fino ad oggi, hanno visto proseguire gli attentati. Ma non mi è parsa più una resistenza -per quanto sempre negativamente connotata- contro i processi di rinnovamento.
Vi ho letto e vi leggo invece una serie di comportamenti più torvamente e puntualmente delinquenziali, che tuttavia emergono in una dimensione sociale locale di attesa assistenzialistica, accompagnata a una diffusa precarietà economica da sopravvivenza e a una visione -di massa, non solo autoctona- della politica e delle istituzioni come luoghi della spartizione e del favoritismo. Una società sarda contemporanea periferica e fragile.
Nella mia ultima e ancora abbastanza vicina esperienza di impegno pubblico, ho avuto modo di incontrare direttamente gli sbocchi di questa realtà. Giusta o impropriamente condotta che sia stata, la lunga e fallita iniziativa per l’istituzione del Parco del Gennargentu incontrò conclusivamente un’opposizione il cui nucleo inscalfibile erano proprio coloro che vivevano e intendono tuttora vivere, pare, di modalità illegali di conduzione dell’allevamento brado su terreni pubblici (in alcuni paesi di suini, in altri anche di bovini), non avendo tuttavia in passato disdegnato, in ragione di questa condizione, di beneficiare di contributi, di indennizzi, di provvidenze pubbliche di varia natura e provenienza. Non che a tutto questo, poi, fossero estranee pressioni, attese, promesse occupazionali legate a un altro mondo e a un’economia parallela, quella dei cantieri forestali, dei compendi demaniali e più ancora comunali.
Potrei ancora descrivere nel dettaglio l’impressione negativa che mi diedero le riunioni con i sindaci, nel 2004 e nel 2005 e, in Prefettura, con i rappresentanti dell’ordine pubblico, stupiti e spaventati gli uni e tacitamente infastiditi gli altri per il fatto che la Regione avesse deciso di smuovere, con le sue iniziative, un patto non scritto tra istituzioni per non applicare le norme di salvaguardia di una legge dello Stato.
Perchè questo lungo memoriale?
In primo luogo perché preferisco rifarmi al mio vissuto e non a delle astrazioni.
In secondo luogo perché è un vissuto lungo, dal quale mi pare di poter desumere che è nei mutamenti della realtà concreta, piuttosto che nell’ideologica individuazione di una costante antropologica, che vanno orientate le ricerche.
In terzo luogo perché troppo spesso quella costante antropologica è utilizzata in modo ambiguo: non si può, ammettendone l’esistenza, esaltarla come uno dei genuini tratti etnici e nazionalitari in opposizione al resto del mondo e nel contempo lamentarsi per prenderne ipocritamente le distanze quando si ritiene di dover attribuire ad essa i peggiori rigurgiti di violenza illegale e perfino omicida.
La prevenzione e la repressione debbono essere frutto di una decisa scelta culturale e politica, senza certe indulgenze politiche, mediatiche e talvolta intellettuali che sono ben più pericolose delle difficoltà a reagire manifestate dalle singole comunità.
Su questo, poi, smetterei anche di evocare la categoria dell’omertà. Non conosco vicenda criminale specifica, in Sardegna come in Italia, nei paesi come nelle città, che si sia risolta col contributo spontaneo di singoli cittadini o di gruppi sociali.
Per l’ovvia ragione che i criminali in genere tentano di delinquere senza testimoni. Per l’altra ovvia ragione che se non si è testimoni, si può sospettare, perfino sapere, ma non è la stessa cosa che poter provare in un processo penale.
In ultimo luogo perché non è più vero che una comunità, per il solo fatto di essere piccola, è culturalmente contigua ai devianti, che piuttosto subisce. E li subisce in un contesto nel quale sempre più le istituzioni della prevenzione, la scuola anzitutto, ma anche tutte le forme del civismo democratico organizzato, si ritirano, mentre quelle dell’investigazione e della repressione si riducono a presenze occasionali, slegate anche fisicamente dalla vita quotidiana di quelle stesse comunità.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.
Lascia un commento