Quando Cagliari divenne città egemone

11 Gennaio 2016
1 Commento


Francesco Cocco
 

Non intendo in alcun modo entrare nelle vicende politiche attuali. Mi interessa esclusivamente riferirmi ad un evento storico  di cui nel 2016 ricorre il 110° anniversario. La grande rivolta del maggio 1906  non espresse solo la rabbia repressa di Cagliari e del suo hinterland, fu anche  “l’Ottantanove cagliaritano”, come lo definì  il sindaco Ottone Bacaredda, parafrasando la rivoluzione francese.
In riferimento alla realtà sarda fu vera rivoluzione. L’Isola finalmente aveva una città egemone. Non più soltanto una “capitale burocratica e militare”, come era stata per secoli, ma una città in grado d’indicare gli indirizzi politici, e le conseguenti lotte sociali. Quasi tutta la Sardegna, unendosi all’ “Ottantanove cagliaritano”,  si ribellò alle condizioni di sfruttamento e di miseria. Insorsero le zone minerarie dell’Iglesiente e del Sarrabus- Gerrei, con numerosi morti e feriti.  La rivolta non risparmiò il centro Sardegna. Arrivò sino a Bonorva, quasi alla periferia di Sassari, la capitale del “Capo di Sopra”, che non restò insensibile alle sollecitazioni provenienti dal Sud dell’Isola.
Con la rivolta del 1906 si creava l’humus perché Cagliari potesse assolvere ad una  funzione di direzione politica generale, conquistata con pesanti sacrifici. Restava però l’antico distacco dal complessivo territorio isolano. Né a superarlo giocava in positivo certa sicumera degli abitanti della città nei confronti di quelli dei paesi (in gergo dispregiativo chiamati “bidduncoli”, bidduncus). Quanto ha pesato un quarto di secolo fa certa “boria urbana” nella mancata realizzazione della città metropolitana? Certamente era la  miopia politica degli amministratori del tempo ma la stessa era suffragata  da una radicata  mentalità.
L’atteggiamento sprezzante era fenomeno presente in quasi tutte le città italiane che prima del 1861 avevano assolto ad un ruolo di capitale nei vari stati della Penisola. Per capire un tale atteggiamento è interessante la letteratura orale sviluppatasi in Sardegna a partire dalla metà dell’ Ottocento con al centro della narrazione il paesano arguto (quasi sempre impersonata dal “seddoresu”, abitante del centro agricolo del Campidano ) che sfugge ai raggiri del cittadino imbroglione.  
Il Secondo Conflitto Mondiale, se proprio non riesce a porre fine a certa mentalità ottusamente provinciale, in qualche modo pareggia le due diverse condizioni di cittadino e di paesano. Il primo in una Cagliari distrutta dai bombardamenti diventa “sfollato” e spesso deve vivere da “sopportato” nei centri isolani. Ma da quella condizione nacque un nuovo legame, fatto di rispetto e solidarietà, tra il cittadino ed il paesano.
Cagliari era uscita dalla guerra distrutta non solo nel suo tessuto edilizio, ma anche nel ruolo egemone che si era conquistata nel 1906. Segno di questa nuova realtà la proposta dell’ avv. Giuseppe Musio di trasferire a Sassari il capoluogo della Sardegna. Di fatto la proposta di Musio ebbe la funzione positiva d’incitare ad una celere ricostruzione della Città. Così nel febbraio del ‘44 l’ Alto Commissario per la Sardegna, generale Pinna, fissò a Cagliari la sede del  suo ufficio ed optò perché la città divenisse il capoluogo dell’istituenda Regione autonoma.
Il ruolo dell’attuale capoluogo ancora oggi  non è accettato pacificamente specie nel nord dell’ Isola. Ecco perché questo 110° anniversario dev’essere occasione di attenta riflessione. Anche le città per mantenere la proprie funzioni hanno bisogno  di un continuo impegno. La funzione egemone che Cagliari si seppe conquistare con le lotte del 1906 e poi con la veloce ricostruzione post-bellica ha bisogno di un nuovo slancio. Le elezioni della prossima primavera potranno essere per  tutte le forze politiche  un’occasione di  riflessione e di ricerca per rinnovare su basi nuove un  tale ruolo per la Città.    
                                                                                                                                                                                                                      
 

1 commento

  • 1 admin
    10 Gennaio 2016 - 18:28

    Andrea Pubusa
    Caro Francesco,

    vorrei aggiungere un tassello alla tua bella analisi. Secondo me la forbice tra città e campagna, Cagliari e i bidduncus si è saldata, definitivamente e compiutamente, nel ‘68. Allora, a seguito del diritto allo studio, migliaia di giovani dai paesi e dalla periferia vennero a Cagliari a studiare. La Casa dello Studente raccoglieva i migliori studenti della Sardegna e lì si formarono i gruppi dirigenti degli anni seguenti. Si trattava di giovani consapevoli del loro valore e decisi a svolgere un ruolo dirigente politico e professionale. Luigi Cogodi ed Emanuele Sanna, nel PCI (che, insieme a chi scrive, formarono la testa di lista di questo partito alle regionali, vittoriose, del 1984), sono l’emblema di questa saldatura, che però riguarda tutti i partiti e tutti i settori, dal foro alla sanità, alle professioni. Il fatto che nel 1984 la testa di lista comunista in provincia di Cagliari fosse affidata a tre bidduncus significa che a quel tempo la vecchia frattura città/campagna era già superata e che tre persone provenienti da centri minori potevano rappresentarei il mondo progressista del capoluogo. Naturalmente, questa considerazione non ha alcuna implicazione di merito, perché, sotto questo profilo, a ben vedere, da allora, anche in Sardegna, la sinistra ha avuto una virata verso il basso, che l’ha portata alla scomparsa. Ma questa è un’altra storia…

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