Contro le diseguaglianze una politica “conviviale”?

29 Dicembre 2015
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Gianfranco Sabattini

Zigmunt Bauman, partendo dallo studio del World Institute for Development Economics Research” che, nel 2000, ha denunciato che l’1% delle persone adulte più ricche possedeva il 40% delle risorse globali e che il 10% più ricco deteneva l’85% della ricchezza totale mondiale, torna a riproporre l’insostenibilità delle esistenti disuguaglianze distributive, a livello internazionale, ma anche a livello di molti Paesi economicamente ricchi. Egli lo fa a modo suo, nel libro “La ricchezza dei pochi avvantaggia tutti. Falso!”, pubblicato nella nuova collana Laterza “Idòla. Libri contro le false certezze”.
Nel volume, il sociologo e filosofo polacco sviluppa la sua critica al modo di produzione capitalistico di produrre, sottolineando come l’ostinata persistenza delle disuguaglianze e della povertà, in un pianeta afflitto dal “fondamentalismo della crescita economica”, abbia già raggiunto livelli tali da indurre “gli esseri pensanti” a riflettere sulla vittime provocate dalla conservazione di una così iniqua distribuzione della ricchezza. Una delle principali giustificazioni che vengono solitamente addotte a favore del libero mercato, quale quello oggi operante all’interno delle economie capitalistiche, è – afferma Bauman - che “il perseguimento del profitto individuale fornisce anche il meccanismo migliore per il perseguimento del bene comune”; mentre le disparità distributive che ne conseguono giustificherebbero gli assunti che la “ricchezza di pochi avvantaggia tutti” e che ogni tentativo di intromettersi nella “naturale disuguaglianza degli uomini” sarebbe dannoso per le forze creative e produttive dei singoli, interessati “a esaltare e mantenere al più alto livello concepibile”.
Bauman sostiene l’infondatezza degli assunti ricordati, facendo proprie le idee del premio Nobel per la letteratura John Maxwell Coetzee; questi, com’è noto, considera astrusa l’idea che il mondo debba essere considerato naturalmente diviso in entità economiche in perenne competizione tra loro, trascurando il fatto che la competizione è un “surrogato sublimato” della guerra. Ma la competizione, come la guerra, non è affatto inevitabile, per cui se si vuole la pace, è possibile scegliere di convivere in uno stato di perenne cooperazione.
La difficoltà di pensare che il vivere insieme possa essere basato su una generalizzata cooperazione tra i componenti di ogni comunità, e tra tutte le comunità, sono espresse dal fatto che l’intero mondo del XXI secolo – afferma Bauman - “non è favorevole alla coesistenza pacifica, e tanto meno alla solidarietà umana e alla cooperazione amichevole. […] La grande maggioranza delle persone, per quanto animata da credenze e intenzioni nobili ed elevate, si scontra con realtà ostili e vendicative, e soprattutto indomabili”. Davanti a tali realtà, che si manifestano sotto forma di cupidigia, di corruzione e di egoismo da ogni parte, non può essere opposta l’azione riformatrice di un singolo; a fronte di esse, perciò, non esiste altra alternativa che ripercorrere “i modelli di comportamento che coscientemente o no, di proposito o per corrività, riproducono monotonamente il mondo del bellum omnium contra omnes”. Proprio per questo, secondo Bauman, gli uomini hanno la tendenza a considerare erroneamente quelle realtà ostili come “natura delle cose”, che nessun potere umano può mutare e riformare.
Alcuni dei convincimenti individuali, consolidatisi nei prevalenti atteggiamenti giustificatori del capitalismo, sono individuati da Bauman, innanzitutto nel crescita economica continua, assunta come il solo modo di affrontare le sfide e risolvere tutti i problemi che il vivere insieme degli uomini inevitabilmente comporta; in secondo luogo, nel consumo in perpetuo aumento, assunto come modalità di rotazione sempre più veloce di nuovi beni di consumo e come principale modo di soddisfare l’aspirazione umana alla felicità; in terzo luogo, nell’assunto che la disuguaglianza tra gli uomini abbia un fondamento naturale, la cui conservazione sia inevitabile, in quanto garanzia del massimo vantaggio per tutti; infine nell’assunto del ruolo positivo svolto dalla rivalità, intesa come condizione necessaria e sufficiente per assicurare la giustizia e la riproduzione dell’ordine e della stabilità sociali.
Per Bauman, pur senza fare più ricorso alla pretesa della sua “naturalità”, la disuguaglianza non si è liberata dall’accusa della pericolosità dei suoi eccessi. Per lenire gli effetti di questi ultimi si è provveduto ad assegnare ai singoli componenti delle comunità specifici diritti compensatori. Quei diritti, essendo stati finalizzati solo ad affievolire gli effetti del fenomeno della disuguaglianza distributiva, avrebbero invece concorso a riproporre la conservazione della “comunità umana come un sito di competitività e rivalità individuale”.
In tal modo, le modalità di concessione dei diritti compensatori sarebbero valse ad impedire la realizzazione del bene comune attraverso “le gioie della convivialità”, con cui sarebbe stato possibile “sostituire il perseguimento della ricchezza, il godimento dei beni di consumo offerti dal mercato e l’arte di fare sempre meglio degli altri, combinati all’idea di crescita economica infinita, nel loro ruolo di ricette quasi universalmente accettate di vita felice”.
In conclusione, sostiene Bauman, pur essendo venuta meno la convinzione che le disuguaglianze sociali abbiano un fondamento naturale, si è conservata nelle comunità capitalistiche l’idea dell’ineluttabilità dei suoi eccessi, la cui cura sarebbe valsa, non a realizzare comunità solidali, ma comunità conflittuali; queste, motivate a perseguire una crescita economica continua, avrebbero continuato a conservare e ad approfondire gli eccessi delle disuguaglianze distributive, che avrebbero impedito la realizzazione della felicità sociale attraverso il perseguimento di una buona convivialità. Bauman, quindi, come Serge Latouche e Yanis Varoufakis, pensa che i mali dell’umanità derivino dal funzionamento delle istituzioni economiche che assumono a loro fondamento il confronto e la competizione, anziché la cooperazione; ciò porterebbe gli individui ad essere vittime del loro egoismo e a non poter fruire dei vantaggi della solidarietà e della collaborazione.

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