A.P.
Del presepio si parla tanto quando si avvicina Natale, a proposito e a sproposito: presidi che lo ammettono, altri che lo vietano, insegnanti che lo fanno altri che preferiscono non farlo. Viene scomodata la tradizione, si richiamano i valori, c’è perfino chi parla d’identità. Rispetto degli altri, dicono alcuni, perché nelle scuole oramai ci sono bambini di tante religioni. Altri per rispetto intendono solo quello altrui, dei migranti, verso di noi. Paradossalmente i più “cristiani” sono anche quelli più razzisti, i più rispettosi e sensibili sono anche i più rinunciatari.
Ma che c’entra tutto questo? Che c’entra questa o quella fede? Che c’entra la tradizione? Il presepio, se lo fai con lo spirito giusto, non è di questa o quella religione, non è di questa o quella tradizione, anzi è sempre attuale, lancia un messaggio universale perché mette al centro l’uomo, prima di tutto quello che nasce, ma anche tutti gli altri, i pastori, gli artigiani, le lavandaie, le tessitrici, l’umanità che lavora. E’ un messaggio di vita, di fratellanza, di solidrietà e di speranza degli uomini e delle donne di buona volontà.
Se è costruito con questo spirito piace a tutti quelli che hanno sentimenti, anche agli atei, e forse a questi perfino di più, perché contano solo sull’umanità.
Ecco perché a casa nostra il presepio c’è, e non uno solo. Ci sono tanti presepi, uno grande, bellissmo, e tanti altri più piccoli, alcuni piccolissimi, in miniatura. Ne abbiamo uno anche in bidda, in paese, anch’esso bello.
E quando finiscono le feste? Che tristezza le statuine negli scatoloni! Ma no! Da noi non vengono nascoste, rimangono in esposizione, a ricordarci che il travaglio dell’umanità prosegue, è quotidiano, come continua dev’essere l’attenzione all’uomo e continuo il nostro impegno.
In casa nostra, grazie a Gianna, questo è il presepio: il racconto dell’umanità che lavora, che si batte e spera in un mondo migliore.
Ecco ora uno scritto sul presepe napoletano tratto da SocialDesignZine periodico online
Il Presepio popolare napoletano
Si è fatto un gran parlare di presepi negli ultimi tempi, a dritto e rovescio, nel politicamente e non politicamente corretto, nel toglierlo o metterlo, amarlo o temerlo.
Il Presepio, naturalmente, non c’entra nulla in questo isterico e, a volte, demenziale dibattito pre-politico. Si è parlato di difesa della tradizione (contro il barbaro invasore, si legge tra le righe!) ma siamo sicuri che questi arcigni difensori delle radici abbiano davvero idea di quello di cui vanno cianciando? Basta entrare in una qualsiasi chiesa del centro-nord. Nel presepio c’è in genere di tutto: miserevoli giochi di luce e d’acqua, buttati a casaccio, deserti uso olografia da mille e una notte ‘de noantri’, grotta o capanna a scelta, statuine recuperate in qualche polverosa sacrestia, new entry acquistate all’UPIM, quando ancora le vendeva, addirittura qualche pokemon o le sorpresine degli ovetti kinder. Più naturalmente tutto quello che un’operosa fantasia da adiuvante di parrocchia escogita e fa preparare ai bambini del luogo, dalle figurazioni fatte con la pasta, alle lampadine dipinte, ai pezzetti di ferro ecc. Ma, si dirà, è in questo bric a brac (che noi pensiamo incolto e demenziale, senza capo né coda), che risiede il fascino della tradizione! Eh, no. La Tradizione, proprio per definizione, appoggia su modi e documenti certi, ha una logica, una storia e uno sviluppo. Forse non dappertutto. A Napoli però, solo per fare un esempio, si sa perfettamente cosa sia il Presepio, quali i significati delle figure, quale la storia di riferimento. Allestire oggi il presepio, quindi, in quella città non è solo ripetere un rito melenso attorno a cui mangiare una fetta di panettone, ma rispettare e rinnovare un problema iconografico.
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La Cantata dei Pastori
La Cantata dei Pastori ha un titolo barocco, pomposamente lunghissimo e rinunceremo a trascriverlo, tanto è universalmente nota con l’abbreviazione d’uso. Fu scritta alla fine del Seicento (1698) da Andrea Perrucci e da allora, da più di tre secoli, è continuamente rappresentata, rimaneggiata, riscritta. Si potrebbe dire che la ‘tradizione della Cantata’ è la ‘tradizione delle Cantate’ perché poi, nel tempo, ogni compagnia di quartiere, di paese, di parrocchia, ha elaborato una sua ‘lezione’ e dato inizio a una propria tradizione interpretativa. Ultimo e più illustre Peppe Barra, che aveva già interpretato la Cantata insieme a Giovanni Mauriello e la Nuova Compagnia di Canto Popolare alla fine degli anni ‘70, nella versione di Roberto De Simone, e che, oggi, la incide finalmente in cd, con la revisione musicale di Lino Cannavacciuolo.
La Cantata dei Pastori è la storia delle traversie di Giuseppe e Maria per giungere al censimento di Betlemme. È un viaggio duro e vengono accompagnati da due figure popolari napoletane, Razzullo, scrivano napoletano assoldato per il censimento, e Sarchiapone, ‘barbiere pazzo e omicida’, maschera ispirata quasi direttamente dalla tradizione popolare dei Pulcinella e antesignano di Felice Sciosciammocca.
Sarchiapone è proprio la cartina di tornasole di quello che andavamo dicendo, della superfetazione e sovrapposizione, cioè, delle tradizioni delle Cantate. Il personaggio di Sarchiapone non esisteva infatti nella versione originale di Perrucci, fu introdotto per rendere meno paludata la rappresentazione, per adattarla al gusto ‘secolare’ del pubblico e via, via, con le successive versioni, si è andato ritagliando un ruolo sempre più importante.
La Cantata dei Pastori viene rappresentata ancor oggi e ancor oggi ogni rappresentazione ha un suo testo, suoi personaggi e attori di riferimento. Racconta Roberto De Simone che Elio Polimeno prendeva le ferie dal suo lavoro di marinaio per essere tutti gli anni a Torre del Greco, tra dicembre e gennaio, e mettersi nei panni del diavolo Belfegor: “Pigliammo o’ costume: maglia rossa aderente, guarnizioni di metallo cu catene dorate, e quanno dico: «Spalancatevi abissi!» ‘e catene fanno nu ddio ‘e burdello. Po’ s’appiccia ‘a lampa ‘e pece greca e io esco. N’asciuta meglio ‘e chesta? E vire che burdello fanno ‘e ccriature. «‘O Riavulo! ‘O Riavulo!» Allora faccio ‘a faccia brutta, comm’a chella che tengo…”
Ecco che quindi la tradizione iconografica del presepio popolare napoletano è certa e facilmente accessibile. I personaggi hanno un nome e un ruolo (e le statuine lo rispettano) perché Andrea Perrucci lo ha scritto e perchè tre secoli di rappresentazioni lo hanno trascritto e rappresentato.
Anche la struttura scenografica e compositiva del presepio popolare napoletano è direttamente influenzata dalla Cantata dei pastori che mescola il suo narrare con quello dei vangeli apocrifi e con altre tradizioni popolari del sud, a metà strada tra il cristiano, il pagano, il magico.
Tutto si costruisce su un monticello di sughero e legno a più strati (lo ‘scoglio’) che, con la sua struttura piramidale, suggerisce lo svolgersi della storia e condiziona i personaggi nel loro viaggio che è un viaggio iniziatico vero e proprio, con il Castello di Erode posto in alto e la capanna del pastore e del pastorello addormentato (Armenzio e Benino nella Cantata) poco più in basso.
La strada che scende attraversa villaggi operosi di artigiani e venditori, piazze occupate da carretti di frutta, di pesce, di formaggi; nel mezzo dell’abitato non è infrequente trovare, mescolati, gli attori di una mitologia profana (Pulcinella, la Vecchia del Carnevale, il Turco Napoletano, o’ Pazzariello…). Le interpretazioni magiche del presepio napoletano insistono nel collegamento con un rituale del culto dei morti, che la nascita miracolosa esorcizza. Tutte le stradine e scalette che conducono pastori e popolani dallo scoglio verso la grotta santa e le due grotte laterali (quella dell’Osteria, dove è spesso oste e commensale Belfegor, il diavolo tentatore, e quella di Cicci Bacco con il suo il carro di vino), sono in discesa: verso un baratro, ove, alla fine del groviglio dei vicoli, si porrà l’alternativa della elevazione o della condanna, dei piaceri sensuali o della redenzione. Chi conosce la topografia partenopea, che degrada lentamente dal ‘monte di Napoli’, ove sorgeva l’antica acropoli, su un terreno tufaceo sforacchiato di grotte e catacombe, non tarderà a rendersi conto della familiarità dello scoglio.
Molti sono gli ostacoli che Giuseppe e Maria (aiutati dal cacciatore Cidonio e dal pescatore Ruscellio, oltre che da Razzullo e Sarchiapone attirati dal miraggio di una colossale abbuffata nella grotta/bettola) dovranno superare prima di trovare rifugio nella grotta della Natività.
Ed è naturalmente conseguente il lieto fine, la salvazione dell’umanità dal peccato e il ritorno di Belfegor, sconfitto, nel suo mondo infero di fiamme e zolfo. Fino all’anno prossimo, quando anche lui, vecchio diavolaccio impunito, potrà tornare a raccontarci la storia infinita della lotta millenaria tra Bene e Male. Un grande archetipo, non c’è che dire!
Bibliografia essenziale
- Roberto De Simone, Il Presepio popolare napoletano, Einaudi 1999.
- Roberto De Simone, La Cantata dei Pastori, Einaudi 2000.
- Andrea Rauch, Alessandro Savorelli, Storia di Natale, Protagon, 2001.
- Peppe Barra, La Cantata dei Pastori, cd con musiche di Lino Cannavacciuolo, Marocco Music.
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Inserito da ra.des | 14.12.06
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