Democrazia in Italia: pessimismo dell’intelligenza, ottimismo…

20 Dicembre 2015
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Francesco Cocco

Sono molto molto pessimista sul futuro della democrazia italiana. Ad indurmi ad un tale stato d’animo non è la sciagurata riforma delle nostre istituzioni, pesantemente orientata ad una concentrazione di potere. Contrastarla è innanzitutto un dovere morale, ancor prima che politico, e il referendum costituzionale sarà l’occasione per impegnarci senza risparmio di energie.
Ad indurmi al pessimismo e ad un senso di profonda tristezza è la posizione di alcuni miei vecchi compagni/e di militanza politica. Pensavo che il loro impegno nelle file del PCI o del PSI li avesse immunizzati da simpatie verso tendenze autoritarie, ne avesse fatto dei sinceri democratici. Evidentemente mi sbagliavo e debbo constatare che il tarlo dell’autoritarismo va impossessandosi delle loro menti.
Naturalmente desidero comprendere le possibili cause di simili processi involutivi. E dato che è corretto guardare innanzitutto ai limiti della propria casa, le cerco nella sinistra italiana degli anni ‘70-‘80, quando si sono formati  i non più giovanissimi filo-renziani di oggi.
Nella sinistra italiana del Novecento era ben presente la categoria del capo. Era un brutto retaggio della Terza Internazionale. “Capo mondiale” della classe operaia (leggi sinistra) era Stalin. In Italia erano “capi”  Nenni e  Togliatti. Quest’ultimo  chiamava “capo dei comunisti italiani “ Antonio Gramsci. Gramsci era morto e quindi alla fine suonava come un espediente perché una tale locuzione divenisse una sorta di formula organizzativa di cui lo stesso Togliatti sarebbe stato beneficiario nella costruzione del culto della personalità.
In realtà Gramsci con la teoria dell’egemonia aveva creato la base ideologica per superare una categoria limitativa della libertà e quindi della partecipazione democratica. L’egemonia gramsciana presuppone una democrazia diffusa che nasce dal basso, che spetta al partito e quindi ai militanti costruire. Il contrario quindi di un’organizzazione che trova il suo referente nel “capo”.
Sappiamo come la categoria del “capo” abbia giocato un ruolo nella scomparsa del PCI. Era il segretario generale (il capo, cioè Occhetto) ad aver deciso, quindi dovere del “buon militante” era seguire la decisione che veniva dall’alto. Le categorie politiche sono anche categorie mentali che non scompaiono dall’oggi al domani. Renzi è il capo del partito, prima ancora che il capo del governo: quindi vede giusto, vede lontano ed ha quasi attributi d’infallibilità. Ciò vale per entrambe le componenti sia di  provenienza democristiana che di provenienza PCI- PSI.
Nei miei vecchi compagni di militanza, ora di dichiarata fede renziana, gioca anche la natura della società italiana. E’ il carattere anarcoide, intollerante della disciplina collettiva che si respira nel nostro Paese. Da esso nacque il fascismo ed oggi può nascere una nuova forma di autoritarismo fascistoide. Il PCI negli ‘40-‘60 cercò di correggere questi aspetti negativi inserendo tra gli articolo del suo statuto il dovere per il militante comunista di essere un “cittadino esemplare”; sviluppando poi una politica culturale collettiva per dar corpo ad un tale obiettivo.  Ben poco residua di quella politica, spazzata via dalla dominante cultura consumistico-edonistica.
Sono però convinto che il pessimismo non deve portare all’inazione, alla sostanziale “rottamazione “ dei valori sui quali è fondata la nostra Costituzione. Molti dei miei vecchi compagni possono riscoprire le idealità che li hanno animati in gioventù. In ogni caso il referendum che ci attende per impedire che passi la sciagurata riforma della Costituzione, sarà occasione per riaffermare, prima ancora che la coerenza politica, i valori della dignità umana. 
                                                                                    
 
 

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