Gianfranco Sabattini
Alain Finkielkraut è un accademico francese, che ha insegnato Storia delle idee al Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’École Poliytechnique; uno dei più giovani (è nato nel 1949) tra quanti, appartenenti ora alla “terza età”, hanno vissuto l’esperienza rinnovatrice degli anni Sessanta del secolo scorso. Egli denuncia il fallimento, per gran parte di loro, delle illusioni rivoluzionarie maturate in quegli anni: dopo aver decostruito i valori ereditati, aver messo in discussione tutte le forme in cui si esprimeva il potere e maturata l’aspirazione a un radicale cambiamento del mondo, i rivoluzionari “sessantottini”– afferma Finkielkraut – si sono successivamente “riconciliati col suffragio universale e i diritti dell’uomo”; tutto ciò è avvenuto dopo aver capito che questi diritti “non servivano a coprire un sistema di dominazione, come insegnava il marxismo ortodosso, ma che, dove erano in vigore, fissavano un limite invalicabile al diritto dello Stato”.
Il recupero dei “sessantottini” alla normalità, secondo Finkielkraut, si è verificato dopo la lettura di “Arcipelago Gulag” di Aleksandr Solženicyn; libro, questo, che è valso a spegnere le intemperanze rivoluzionarie e ad insegnare “quanto l’enormità del crimine fosse connessa all’ideologia”, contribuendo così a guarire dall’arroganza ideologica buona parte di quanti credevano nella possibilità di un grande cambiamento. Dopo di ché, con la fine degli anni Settanta, l’aspirazione al cambiamento ha cessato d’essere all’ordine del giorno; ma, nel momento in cui ciò è accaduto, i mancati rivoluzionari, che avevano pensato d’essere gli autori della propria storia, hanno preso coscienza del fatto che i cambiamenti reali, nel frattempo intervenuti nell’organizzazione sociale, indipendentemente dalle loro illusioni, li avevano privati anche delle residue certezze.
Da che cosa è stato causato il fallimento, riguardante anche il ripiegamento alla normalità del modo di pensare degli ex “sessantottini” rivoluzionari? Da un lato, dall’avvento del neoliberismo, che ha comportato la subalternità della politica all’economia, con il sovvertimento degli equilibri sociali che era stato possibile realizzare con la costruzione, nel corso degli anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, del sistema di sicurezza sociale, anche col concorso dei movimenti giovanili degli anni Sessanta. Dall’altro lato, dal flusso degli immigrati nei Paesi europei, fenomeno irrobustitosi rapidamente, che ha cambiato radicalmente la vita di gran parte dei Paesi verso i quali tali flussi si sono indirizzati. Questi due eventi, che hanno preso forma soprattutto a partire dalla fine degli anni Settanta, sono valsi a determinare che la rinuncia a cambiare il mondo, propria delle generazioni rivoluzionarie degli anni precedenti, non consentisse, né di conservare lo status quo, né di ritornare al passato.
Nel momento stesso in cui coloro che volevano un cambiamento radicale a livello planetario sono diventati realisti, rinunciando all’impossibile, ciò che nessuno aveva previsto, né immaginato, si è presentato – afferma Finkielkraut - senza preavviso, scompigliando tutto; conseguentemente, i rivoluzionari mancati si sono trovati costretti, non solo a non riuscire a controllare il mondo così com’era diventato, ma anche a vederselo sfuggire dalle mani. Il cambiamento originario, che doveva essere “un’operazione della volontà”, di fonte alle sfide neoliberiste ed a quelle poste dalla necessità di integrare i migranti nei sistemi sociali di arrivo, si è tradotto in eventi senza che nessuno li avesse programmati. Si pensava di poterli governare e si è finito col subirli; in altri termini, secondo Finkielkraut, il governo del mondo ha cessato d’essere qualcosa cui si poteva aspirare, per trasformarsi in qualcosa che veniva subito.
Ciò ha contribuito a determinare l’incapacità dei Paesi europei a controllare la crescente instabilità economica ed a risolvere i problemi dell’integrazione dei diversi, a causa dell’abbandono dei vecchi equilibri sociali, dell’imponente ridistribuzione demografica e del tentativo di considerare il problema dell’integrazione degli immigrati nelle società dei Paesi di destinazione in termini esclusivamente economici.
L’economia, però, afferma Finkielkraut, non ha potuto sostituire la politica, in quanto la crisi, originata dalla crescente instabilità economica e dalla mancata integrazione degli immigrati, non ha potuto essere risolta sostituendo al cittadino il lavoratore-consumatore; ciò perché, secondo l’accademico, non è stato possibile ridurre tutto a “business as usual”, nel senso che è stata ignorata l’esistenza della “discordanza delle abitudini”. Agli esperti che, attraverso le cifre, hanno creduto di poter avere accesso “alla carne del reale” e che affermavano, calcolatrice alla mano, che l’afflusso degli immigrati avrebbe compensato in modo provvidenziale “la flessione della natalità nel Vecchio continente”, l’esperienza ha risposto che gli individui non erano intercambiabili, mettendo in evidenza che essi, per quanto identicamente soggetti alla logica dell’interesse, non erano individui “fusi nello stesso stampo”, non avevano lo stesso modo di abitare, né le stesse concezioni del mondo.
Secondo Finkielkraut, nessuna delle differenze risultava insuperabile, ma quando i modi di vivere e di pensare hanno cominciato “a cozzare”, al di là del tenue velo della promessa di un futuro migliore, seppure a volte non per tutti, è stato inevitabile che la crisi dei sistemi sociali ospitanti diventasse permanente.
Le cause della crisi, riconducibili alla mancata integrazione sociale dei diversi, sono state di varia natura; di solito hanno preso la forma delle dispute sulla identità e sul rispetto dei valori in cui si oggettivizzava l’identità, sia delle popolazioni dei Paesi ospitanti, che di quelle dei Paesi d’origine. Riguardo all’identità, le popolazioni dei Paesi europei non hanno mai smesso del tutto di far pesare sugli immigrati la loro vocazione alla guida dell’umanità; ciò è accaduto, e continua ancora ad accadere, perché le popolazioni del Vecchio Continente non sono riuscite a interiorizzare che l’integrazione sociale non implicava la conversione di chicchessia, sul piano religioso o su quello culturale in generale, ma il reciproco riconoscimento dell’altro.
Sotto l’urto della pluralità, le società europee hanno scoperto il proprio essere; scoperta preziosa – afferma Finkielkraut – ma anche pericolosa, se le singole comunità non fossero riuscite a superare la tentazione egocentrica di erigersi a modello ideale per il resto del mondo, senza che ciò comportasse possibili “tentazioni penitenziali” da parte delle popolazioni ospitanti, per ipotetiche o reali colpe del passato. In altre parole, l’eredità valoriale e culturale delle società europee meritava certo di essere riservata e difesa, senza però presunzioni elitarie, ma anche senza opportunistici cedimenti; il contrario di ciò che, invece, è prevalentemente avvenuto.
Se si fosse assunto che le differenze valoriali e culturali erano la causa della mancata integrazione degli immigrati e che quelle differenze potevano essere superate, l’integrazione avrebbe potuto avere inizio, secondo Finkielkraut, con il metodo democratico, considerando che la democrazia non è solo un regime politico, ma è anche “un movimento, una dinamica, un processo storico di cancellazione delle frontiere e di livellamento delle differenze”. Dietro gli slanci umanitari di apertura verso il diverso e dietro i pregiudizi sull’irriducibilità del diverso all’osservanza delle regole della democrazia, gli Stati ospitanti hanno dissimulato la loro incapacità di fare uso della democrazia intesa come processo storico, preferendo governare il corso degli eventi secondo una logica opportunistica, sufficiente a consentire la salvaguardia innanzitutto dei loro prevalenti interessi economici.
Gli Stati ospitanti, infatti, hanno continuato a ritenere che l’integrazione dovesse procedere secondo gli interessi espressi dai mercati e dalle loro economie, senza valutare responsabilmente che l’opportunismo rendeva impossibile l’uso del metodo democratico per la cancellazione delle differenze, ma anche dei motivi di guerra tra gli Stati, supportati dai “cozzi” valoriali e culturali oggi ancora presenti nei Paesi europei.
Del fallimento della politica degli Stati ricchi e potenti sono prova i recenti fatti tragici di Parigi, compiuti da terroristi del non ancora ben definito “Stato Islamico”. Di fronte a tali fatti, la reazione immediata del Paese che ha subito la strage di molti suoi cittadini e degli altri Paesi che, anche se da posizioni concorrenti, hanno interesse a contrastare che la pratica del terrorismo destabilizzi il normale funzionamento dei mercati, si è tradotta nella volontà di ricorrere ad azioni di guerra, illudendosi di poter così eliminare la minaccia terroristica. La certezza dell’inefficacia di tali azioni è da ricondursi al fatto che queste vengono intraprese senza la reale valutazione della situazione da cui trae origine il terrorismo; ovvero, senza tener conto del fatto che la lotta in atto tra gli Stati arabi, o di religione islamica, è diretta, sotto le mentite spoglie di una guerra di religione, ad assicurare a chi riuscirà a prevalere il controllo esclusivo delle risorse petrolifere del Medio Oriente.
L’opportunismo dei Paesi che oggi sono propensi a far la guerra al terrorismo non consente loro di valutare realisticamente chi siano i veri responsabili del terrorismo; per non compromettere i loro interessi, essi tendono a colpire il “braccio” e non la “mente” del terrorismo, evitando così che le azioni di guerra colpiscano realmente quegli Stati mediorientali che, da posizioni equivoche e subdole, sono i veri ispiratori della pratica del terrore. I nemici del terrore non vogliono colpire i suoi ispiratori e finanziatori, per non compromettere le interessate relazioni che intrattengono con tutti i Paesi di religione islamica in guerra tra loro; è il “business as usual“ del quale parla Finkielkraut, che fa premio sulla sicurezza dei cittadini dei Paesi ricchi e forti, a vantaggio unicamente della sicurezza economica dei loro oligarchi. Tali Paesi, o una parte di essi, tra questi l’Italia, pur di diventare più potenti e più ricchi, o meno instabili sul piano economico, nella presunzione di acquisire maggior credito presso i rappresentanti dei governi dei Paesi di religione islamica, si sono persino rivelati inclini ad affievolire l’identità dei propri cittadini, rinunciando ad esibire, anche laddove non vi era alcuna ragione per farlo, opere dell’ingegno, solo per risultare rispettosi della sensibilità valoriale altrui. La prudenza diplomatica serve a poco per combattere il terrorismo, se si manca di inserire quest’ultimo nella complessa situazione politica che coinvolge la quasi generalità dei Paesi del Medio Oriente, per individuare tra di essi i veri responsabili dell’insicurezza che grava sul capo dei cittadini europei. Ma è molto improbabile che ciò possa avvenire, perché per la salvaguardia della sicurezza sarebbe necessaria la rinuncia a qualche vantaggio economico e, allo stato attuale, considerato l’opportunismo con cui i Paesi che vogliono combattere il terrorismo si stanno comportando, nessuno di essi è propenso a subirne le conseguenze politiche, sul piano elettorale e su quello delle alleanze e dell’accesso alle fonti energetiche.
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