Dopo i fatti di Parigi, è possibile un II Piano Schuman?

5 Dicembre 2015
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Rosamaria Maggio 

I fatti di Parigi del 13 novembre, un venerdì di fuoco sul Boulevard  Voltaire che, come dice l’antropologa Amalia Signorelli, evoca in modo macabro il maestro della tolleranza e della razionalità, hanno tenuto l’Europa col fiato sospeso.
Non che ignoriamo che in giro per il mondo negli ultimi decenni (10 attacchi terroristici al giorno come emerge dal Global terrorisme database-GTD la banca dati della University of Maryland) si siano intesificati gli atti terroristici.
Non che non veniamo colpiti dai massacri di Beirut piuttosto che di quelli  del Museo Bardo o dell’Hotel Radisson Blu di Bamako, ma è evidente che le notizie in prima fila, anche dei nostri quotidiani, sono quelle che ci riguardano più da vicino,quelle sono le notizie che coinvolgono la nostra quotidianità.
La notizia del massacro del Mali del 20 novembre (30 morti) è già seconda rispetto all’erta di Bruxelles che raggiuge livello 4.
Penso che sia normale, in un mondo ove ormai il globale è locale e viceversa, la forte differenza con l’ieri, in cui tutt’al più si sapeva che cosa era successo nella strada vicina; oggi ci dobbiamo orientare con una mole di notizie difficili anche da decodificare per comprenderne l’effettiva portata.
E’ quindi anche ovvio che nella massa immane di notizie quotidiane, quelle che ci riguardano più da vicino siano anche quelle che ci tengono più in tensione.
In questa settimana ci siamo interrogati sulle ragioni di questi gesti, ne abbiamo discusso con sociologi, psicologi, religiosi, politici, esperti militari.
Abbiamo bisogno di capire perchè un giovane tra i 20 ed i 30 anni, decida di farsi saltare in aria in un atto terroristico dove muoiono centinaia di ragazzi come lui.
Ci sono davvero ragioni religiose, oppure anche questa è una bufala che  tende a strumentalizzare giovani emarginati e di modesta cultura che non hanno alcuna speranza nel futuro da essere facilmente manovrabili a questi fini?
Ci interroghiamo sulle responsabilità della politica internazionale, le responsabilità dell’occidente intendo, nel destabilizzare nord-africa e medio-oriente.
Ma soprattutto ci interroghiamo sulle soluzioni.
Ed anche da questo punto di vista ne abbiamo sentito di tutti i colori.
Spedizioni punitive . La Francia, attraverso il suo Presidente socialista, richiama il trattato di Lisbona per chiedere un intervento militare comunitario ed invoca la modifica della Costituzione francese per avere poteri speciali da esercitare nel proprio paese.
Altri, anche fra i nostri politici, gridano alla chiusura delle frontiere in entrata ed uscita, europee e nazionali, dimenticando che nella maggior parte dei casi i terroristi sono nostrani.
Nei talk show si discute sul da farsi.
Poche le risposte efficaci.
Fra le tante, importante quella di Romano Prodi che suggerisce come  l’unica strada sia togliere l’acqua nella quale nuotano i terroristi dell’ISIS: armi, petrolio che vengono venduti da privati o anche da Stati a questo sedicente Stato Islamico.
A questo punto mi sorge una domanda.
Noi europei siamo portatori di una grande esperienza di pacificazione portata avanti nel secondo dopoguerra e che ha garantito al vecchio continente 70 anni di pace.
Ed allora mi domando :perchè non ripartire da lì?
Perchè non ripartiamo dall’idea dei padri fondatori dell’ Unione Europea, forse utipistica ora come lo sarà stata allora?
Un secondo Piano Schuman intendo, non potrebbe essere la strada maestra?
Lo statista Robert Schuman, avvocato e ministro degli Esteri francese tra il 1948 e il 1952 è considerato uno dei padri fondatori dell’unità europea.
Insieme a Jean Monnet elaborò il Piano Schuman, noto a livello internazionale, reso pubblico il 9 maggio 1950, data che oggi segna la nascita dell’Unione europea.
Con il Piano venne proposto il controllo congiunto della produzione del carbone e dell’acciaio, i principali materiali per l’industria bellica.
L’idea di fondo era che, non avendo il controllo sulla produzione di carbone e ferro, nessun paese sarebbe stato in grado di combattere una guerra.
Questa stessa idea, difficile e forse utopica, trasferita sulle risorse energetiche attuali, petrolio e gas, estesa alle materie prime funzionali alla produzione di armi, sicuramente l’acciaio, ma anche le armi chimiche così’ come si è fatto almeno in parte per il nucleare, potrebbe essere la strada da percorrere in un grande patto mondiale che anziché favorire il liberismo come nell’Organizzazione mondiale per il commercio, abbia l’obiettivo di pattuire un controllo sovranazionale delle risorse.
Ed in fondo l’occasione del summit sul clima di questi giorni non potrebbe essere che la faccia di una stessa medaglia?
Le risorse naturali ed economiche, lo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente, sono la causa non solo della distruzione del pianeta come ambiente naturale del nostro sano vivere, ma anche la causa indiretta di guerre, scontri di potere, forme di terrorismo planetarie.
Certamente paesi come l’India hanno il problema di fornire la luce elettrica a ben 200 milioni di persone ed hanno difficoltà a limitare l’uso del carbone; ciònostante non rifiuta un” piano solare” e non vuole essere altresì la responsabile di un fallimento del summit.
Molti stati in via di sviluppo o sottosviluppati hanno il problema di accedere ad un certo livello di ricchezza che consenta l’accesso ai diritti delle loro popolazioni.
Ciònonostante forse un dialogo è possibile anche con chi sembra, per diverse ragioni, lontano da forme di rinuncie di sovranità come sarebbe quella di non poter decidere in autonomia della compravendita di determinate risorse, della produzione di armi convenzionali, chimiche e nucleari.
Ma per salvare il mondo questa è, secondo me, l’unica strada da intraprendere.

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