Io non sono in guerra

17 Novembre 2015
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Tonino Dessì

Nonostante tutto l’amore che ho per la Francia e, più ancora, nonostante tutto il dolore che ho provato per le vittime del crudele attentato dell’IS a Parigi, io la bandiera francese sui miei profili social non l’avrei postata. Sono i colori dipinti sulle ali degli aerei inviati a bombardare la Libia dal governo francese, il più intraprendente nel provocare l’ultima, in ordine di tempo, destabilizzazione violenta e proditoria di un Pa-ese nordafricano affacciato sul Mediterraneo. Quei colori attendono di essere riabilitati agli occhi di chi quei bombardamenti ha subito e di chi oggi si trova su un suolo insanguinato da una guerra che doveva essere evitata.
Non mi sarei unito a coloro che hanno pubblicato quella bandiera, ma che pochi giorni prima hanno passato come di routine la notizia dei morti libanesi e palestinesi, vittime anch’essi di un attentato dell’IS, nè a coloro che poche lacrime hanno versato per i passeggeri prevalentemente russi, uomini, donne e bambini, dell’aereo, distrutto anch’esso pochi giorni prima, da una bomba dell’IS nel cielo dell’Egitto nè ancora a coloro che in queste ore non tengono in gran conto la mostruosa contabilità dei morti ad opera di Boko Haram in Nigeria.
Non mi unisco a chi dice che “siamo in guerra”. Non mi unisco nemmeno a chi dice che lo siamo “per difendere la continuità del nostro modo di vivere”.
Io non ho dichiarato guerra a nessuno. E se dovessi essere incidentalmente vittima di un attentato terroristico dell’IS, pur maledicendo questi bastardi assassini, condannerei senz’appello all’inferno i governi occidentali e i governi, non solo arabi, alleati dell’Occidente che hanno favorito il nascere l’IS, che l’hanno finanziato e che in qualche misura l’utilizzano ancora per mantenere destabilizzato il mondo islamico.
Non ho pagato le tasse al mio Governo pensando che anche un solo centesimo avrebbe finanziato direttamente o indirettamente fondamentalisti di alcuna osservanza: semmai pago perché protegga me e la mia famiglia, anzitutto evitando di infilarsi anche a nome mio in avventure militari.
Ho conosciuto da spettatore, nella mia esperienza di vita di più di mezzo secolo, una sola forma di guerra, del tutto illegittima: quella dei forti contro i deboli, per perpetuare il proprio dominio. Riconoscerei legittima una sola forma di guerra, non necessariamente cruenta: quella degli oppressi contro gli oppressori, purchè volta a escludere per sempre nuove oppressioni, perché altrimenti bisognerebbe riprendere le armi.
Non condivido lo slogan “dobbiamo continuare come prima, difendendo il nostro modo di vivere”.
Dobbiamo difendere per principio tutti i modi di vivere pacificamente, ma non solo il nostro, ingiustificata-mente presupposto “migliore”. Chi si prendesse la briga di guardare emittenti internazionali il lingua inglese come Al Jazeera, in questi giorni, potrebbe constatare che, ben prima dell’attentato di Parigi e quantomeno dopo l’attentato al Bardo in Tunisia, misure antiterrorismo ferree ed efficaci sono state prese, dovunque possibile, nei Paesi islamici, per consentire alla gente di pregare nelle moschee, di mandare i bambini nelle scuole, di andare al lavoro prevenendo il pericolo di essere dissolti e fatti a pezzi dagli uomini neri. Anche quello è un modo di vivere da difendere: anzi, prima ancora, da non minacciare.
Ma poi, ora che sappiamo, degli attentatori di Parigi, che erano tutti giovanissimi e tutti nati in Europa, sia pur di origini nordafricane, ora che sappiamo che il loro probabile luogo di provenienza era un quartiere modesto, ma non disperato del Belgio, siamo sicuri che non sono anch’essi un prodotto del nostro “modo di vivere”? Non sono uno psicologo, ma ho vissuto e vivo in un Paese dove non è stato difficile assoldare giovani al servizio di terrorismi di varia natura e non lo è tuttora assoldarli al servizio della mafia e ancor più della camorra.
E’ vero: abbiamo continuato a vivere, a coltivare il nostro “modo di vivere”, ma sempre meno siamo avvezzi a fare i conti con le ragioni per le quali, nella nostra società, esistono serbatoi dai quali è facile prelevare pulsioni di ribellione, un tempo sociali, anche ideologici, oggi addirittura religiosi, per cause sbagliate. Se dovesse crescere l’odio interno verso le diversità di qualsiasi genere, se dovesse attenuarsi il dovere della politica, delle istituzioni, della cultura, dell’informazione, di promuovere universalmente ragioni di giustizia, da quei serbatoi scaturirebbero ancora strumenti di morte: di quella altrui, anche mediante la propria.
Ieri la Francia ha bombardato nuovamente un “quartier generale” di IS, “per rappresaglia”. Ma nelle scorse settimane cos’altro stava facendo? L’anno scorso, nelle stesse ore in cui Israele bombardava Gaza, un autonominatosi Mullah nero, sull’improbabile scenario rappresentato da un balcone con dietro un ventilatore acceso, proclamava il Califfato in Iraq, iniziando la strage in loco dei Cristiani e degli Yaziti e aggredendo i Curdi. Nessuno si è mosso per fermarlo, in quelle ore, nelle quali una non difficile operazione di polizia militare internazionale avrebbe potuto stroncarlo sul nascere. Se lo si è lasciato arrivare in Siria, financo in Libia, è stato perché tornava comodo.
Mentre si proclama che “Siamo in guerra per difendere la nostra civiltà”, intanto, da noi non ci si limita in queste ore a invocare misure di sicurezza più efficienti (almeno rispetto a quelle che per ben due volte, nell’irta Francia delle frontiere chiuse ai migranti provenienti dall’Italia e a quelli diretti in Gran Bretagna, non hanno funzionato per nulla), ma si anticipa, contraddittoriamente, che dovremo cominciare a rinunciare a qualche pezzo della nostra civiltà, per esempio alla libertà di riunirci e di manifestare, protetti e non solo autorizzati dai nostri governi.
Qualcosa non torna. Se c’è una differenza tra la nostra civiltà democratica ed altre forme di organizzazione politica e civile, essa sta nella libertà di manifestare il nostro pensiero non solo individualmente, ma più ancora collettivamente, riunendoci e se occorre scendendo in piazza.
In discoteche o a concerti o a partite di calcio, si può andare in forma blindata anche in Paesi meno liberi dei nostri. Ma se lo stato di guerra in realtà è “interno” ed evoca una limitazione della libertà di agire collettivamente per fini civili, sociali, politici, vuol dire che in campo si cerca di mettere qualcos’altro. Forse quel qualcos’altro che ci ha portato altre volte, sia pur sempre più flebilmente, a scendere in piazza per chiedere che ogni risposta alle violenze e ai terrorismi sia razionale, proporzionata, efficiente e non finalizzata a restringere la nostra democrazia e la nostra libertà.
Non perché, come banalmente si sostiene, sia quello, il fine dei terrorismi -nel loro scacchiere immaginario o reale, essi pensano piuttosto a sé stessi come poteri organizzati che si scontrano con altri poteri organizzati, perciò ignorano in radice il valore delle vite che sopprimono- ma perché sappiamo che questa restrizione è da sempre la tentazione di altri poteri, più interni, che noi ben abbiamo conosciuto e che tuttora conosciamo, o che dovremmo riconoscere.

1 commento

  • 1 pier nicola simeone
    18 Novembre 2015 - 13:30

    d’accordo al 99,99%, una sola distinzione: una volta la guerra veniva dichiarata da tutti quelli che intendevano farla…magari appena un attimo prima che piovessero bombe che loro giorni prima avevano “spedito” con quel preciso intento…poi c’erano anche quelle guerre mai dichiarate…questa è una guerra con dichiarazione unilaterale cui non possiamo sottrarci ma che dovrebbe far attivare per tutti noi gli strumenti che vogliamo attivare. Credo che #notinmyname non basti più nella nostra parte di mondo

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