Gianfranco Sabattini
Marco Damilano ha intervistato Romano Prodi (“Missione incompiuta: Intervista su politica e democrazia”), offrendo la possibilità al leader dell’Ulivo di rivendicare la responsabilità del tentativo di offrire all’Italia un’alternativa al “berlusconismo”; in ciò sorretto dal filo conduttore della sequenza di domande dell’intervista genuflessa somministrategli da Damilano. Della intervista si è già occupato in questi blog Carlo Dore jr.
L’alternativa a Belusconi rappresenta, secondo l’intervistatore, “l’anima del prodismo, il cuore dell’Ulivo, che negli ultimi due decenni ha rappresentato il più ambizioso tentativo di dare forza e soggettività politica al riformismo italiano, laico e cattolico”; il tecnico Prodi, nel tentativo di dare corpo al suo disegno politico, si sarebbe rivelato “il più politico di tutti i governanti. Il più tenace, il più ostinato nella difesa delle sue scelte”: l’unico patto che avrebbe “stipulato e rispettato nella sua carriera politica è stato quello con i cittadini-elettori”. Ad opporsi al suo progetto sarebbe stata “una parte del mondo politico, anche nel centro-sinistra” e un pezzo di società, che avrebbe diffidato del “cambiamento ancor più della politica”. Nonostante il fallimento, i venti anni del progetto prodiano non sarebbero stati anni sprecati: in quel seme – afferma Damilano – ci sarebbe ancora il “filo della democrazia compiuta, la democrazia dei cittadini” e ci sarebbe ancora “la risposta alla crisi di rappresentanza degli strumenti tradizionali della politica e alla perdita di legittimità di chi governa”. L’eredità dell’Ulivo, conclude Damilano nella sua Introduzione, aspetterebbe ancora di essere realizzata; “Una missione incompiuta, certo, ma anche una missione in attesa di compimento”.
Strana intervista, quella fatta da Damilano a Romano Prodi, dalla quale emerge una figura dell’intervistato quasi sia stato un salvatore della patria, anziché uno dei maggiori responsabili delle disastrose scelte politiche che hanno determinato nel Paese uno stato di crisi della società e di instabilità dell’economia, delle quali gli italiani da anni stanno pagando le conseguenze. Se la “missione incompiuta, dopo il ritiro dalla politica di Prodi, è rimasta in attesa di compimento, c’è da dubitare che essa possa avere un seguito; non tanto perché al governo vi è un altro partito, il Partito Democratico, e una leadership che sogna di risanare l’Italia con un Partito della Nazione, quanto perché le scelte di Prodi e del gruppo di potere che lo aveva espresso, conformando l’economia nazionale alla logica del neoliberismo, hanno avuto l’effetto di scatenare a centottanta gradi gli “animal spirit” della società italiana che ne hanno reso impossibile la governabilità; impossibilità che tuttora permane..
Per rendersi conto di ciò, basta ricordare, avvalendosi di quanto lo stesso Prodi “confessa” a Damilano nell’intervista. Il suo cursus honorum è costellato di studi condotti in università prestigiose e arricchito principalmente della cultura pragmatica della London School of Economics, dalla quale avrebbe appreso il convincimento che ogni paese civile debba dotarsi di un “Welfare State” degno di questo nome, secondo il pensiero di John Maynard Keynes, assunto a suo maestro; Prodi tiene a sottolineare la sua propensione al pragmatismo, denunciando la sua incapacità assoluta di “fare discorsi teorici, filosofici o ideologici” e rivelando che il suo pensiero è sempre orientato ad applicarsi a cose concrete, sino a provare lo stato di disagio che è costretto a patire allorché deve lavorare ed agire per risolvere problemi, come gli è capitato in l’Italia, dove la “sistemazione teorica generale fa sempre premio rispetto alle proposte concrete”; è forse questa sua propensione a navigare a vista, senza teoria nella soluzione dei problemi, che ha fatto di lui uno dei protagonisti nella distruzione dell’economia mista in Italia, senza alcuna valutazione delle conseguenze che l’eliminazione delle imprese pubbliche avrebbe comportato. Così facendo si è trascurato di considerare che tramite esse era stato possibile realizzare un equilibrio tra le forze economiche e sociali durante le ricostruzione postbellica dell’economia nazionale; un equilibrio che, dopo la distruzione dell’economia mista, non è stato possibile conservare, a causa della mancata attuazione di riforme istituzionali in grado di garantire una nuova forma di governabilità, utile per continuare a conservare la stabilità economica e sociale del Paese.
Il modo in cui è stata eliminata l’economia mista italiana costituisce un capitolo oscuro della storia nazionale contemporanea; attraverso le privatizzazioni, che Prodi ha avviato e realizzato durante i suoi due mandati alla presidenza dell’IRI, sono stati liquidati settori produttivi trainanti dell’economia italiana ed alterata la struttura del sistema bancario, imperniato sul ruolo di Madiobanca: è Prodi stesso a riconoscere il suo ruolo nel cambiamento impresso all’organizzazione del sistema produttivo nazionale e di quello bancario; pretendendo di tracciare una differenza tra primo e secondo mandato, egli non ha alcuna remora nell’affermare che il secondo è stato molto diverso rispetto al primo: “nel 1982 – sono le sue parole – ero stato chiamato a fare da risanatore, nel 1903 il mio ruolo [è stato] chiaramente quello di chi deve smontare il motore”, come se il risanare per vendere sia stato molto diverso dallo “smontare” l’esistente. A chi lo intervistava, Prodi non ha esitato a dichiarare che l’IRI andava smantellata e che l’accettazione del secondo mandato è avvenuta solo perché la richiesta proveniva da Ciampi, suo sodale nell’allineamento dell’economia italiana alla logica neoliberista dei mercati globalizzati.
Dopo aver “smontato il motore” dell’economia italiana, Prodi dichiara di non aver mai pensato di entrare in politica, ma la crisi economica e il caos politico, seguiti alle privatizzazioni e alla “grande confusione” del 1992/1993, originata da Tangentopoli, gli hanno fatto percepire l’urgenza che il legame esistente tra crisi economica e paralisi politica “doveva finire, e che era necessario impegnarsi in prima persona per riportare l’Italia in un circuito internazionale”; a ciò motivato dalla convincimento che il mondo era cambiato, per cui, non potendosi rimpiangere il passato, l’Italia doveva cambiare e che alla necessità di cambiare non vi erano alternative.
Per il governo del cambiamento è nata l’idea dell’Ulivo, come alternativa al “berlusconismo”, troppo sbilanciato a favorire gli interessi dei “poteri forti”; intendendo svolgere la funzione storica di far terminare l’eterno conflitto tra ghibellini e guelfi, che ha condizionato tutta la storia italiana, l’Ulivo voleva essere una “coalizione dei riformisti, dei progressisti laici e cattolici, uniti da un programma politico di sviluppo del Paese”; in altri termini, secondo Prodi, l’Ulivo voleva essere un “blocco sociale” col quale realizzare un bipolarismo politico, che fosse a fondamento dell’alleanza tra cattolici e laici, in cui “i cattolici esercitassero una funzione di lievito, divisi secondo le loro preferenze, e i laici operassero allo stesso modo”; beata sincerità!. L’Ulivo, dichiara Prodi, “è nato a casa mia […]. Piaceva il nome dell’Ulivo perché richiamava ovunque un’immagine positiva. […] Il simbolo della pace in campo sia cattolico che laico. […] Non era la pianta ad esercitare fascino, ma il ramoscello”, le cui fronde rappresentavano le diverse strutture partitiche che concorrevano a dar corpo all’Ulivo e a renderlo, nelle intenzioni, la versione “progressista e buonista” di Forza Italia. Sono stati Giovanni Bianchi e Nino Andreatta a far uscire il nome di Prodi come leader dell’alleanza tra cattolici e laici per sconfiggere sul piano elettorale il partito dei Silvio Berlusconi. L’Italia ha potuto così sperimentare l’avventura di due governi presieduti da Prodi, grazie all’appoggio di improbabili coalizioni che, al di là delle intenzioni del suo leader, non è mai stato possibile sapere cosa in realtà fossero.
Il primo Governo-Prodi è rimasto in carica dal 1996 al 1998, sfiduciato alla Camera dei Deputati con 312 voti favorevoli e 313 contrari, dopo la decisione di Rifondazione Comunista di far venire meno l’appoggio esterno. Dopo essere stato nominato, nel 1999, alla presidenza della Commissione Europea, che ha tenuto per cinque anni, completando il disegno di conformare anche l’intera Unione Europea ai diktat del neoliberismo internazionale, con l’allargamento ad Est della stessa Unione, Prodi, rientrato in Italia, ha varato nel 2006 il suo secondo governo, dopo la vittoria di una coalizione di centro-sinistra, composta da un’”ammucchiata” di partiti, che più eterogenea non poteva essere. Il governo aveva l’appoggio di un’esigua maggioranza alla Camera e da un maggioranza di pochi seggi al Senato, grazie ad una legge elettorale che “taroccava” l’effettiva rappresentanza degli organi decisionali dello Stato (passata alla storia col nome di “porcellum”), nonostante che, in termini di voti assoluti, la coalizione di centro-sinistra avesse ottenuto circa 500.000 voti in meno delle coalizione di centro-destra. Il governo contava al suo interno, oltre al Presidente del consiglio, 26 ministri, 10 viceministri e 66 sottosegretari, per un totale di 103 membri (contro i 24 ministri, 9 viceministri, 63 sottosegretari, oltre al Presidente del consiglio, per un totale di 97 membri, del terzo Governo-Berlusconi); per le sue dimensioni, il secondo Governo-Prodi superava persino il VII Governo-Andreotti, composto da 100 membri. La seconda avventura governativa di Romano Prodi è cessata nel 2008, sfiduciato al Senato per mano dell’UDEUR, piccolo partito risultante dalla decomposizione della vecchia Democrazia Cristiana.
Al di là delle intenzioni, come poteva Prodi nutrire l’illusione di poter compiere la “missione” di socializzare i vantaggi che pensava di aver procurato all’Italia con la distruzione sul finire della Prima Repubblica degli equilibri economici esistenti, operando, come si suol dire, “al buio”, cioè senza la bussola di un ragionamento, un po’ al di sopra del suo preteso pragmatismo, che gli indicasse le riforme istituzionali che sarebbe stato necessario compiere per evitare i disastri seguiti al venir meno di quegli equilibri? Sta di fatto che, dopo aver deciso di “scendere in campo”, Prodi ha inteso, successivamente, porre rimedio a quei disastri, ricorrendo al suo confusionario pragmatismo, cercando di conciliare “l’acqua santa con il diavolo”, ovvero avvalendosi dell’appoggio di forze politiche eterogenee, la cui litigiosità è stata lo scoglio contro cui è andata ad infrangersi la sua presunta missione, politicamente naufragata nel caos e nella confusione, da cui il Paese non riesce ad uscire.
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