Il pensiero unico neoliberista e il governo del mondo

24 Ottobre 2015
2 Commenti


Gianfranco Sabattini
Di recente Luciano Gallino ha pubblicato su “la Repubblica” un articolo, “La lunga marcia dei neoliberali per governare il mondo”, nel quale narra la storia di come i sostenitori del libero mercato, da quando hanno fondato nel 1947 la Mont Péleren Society (MPS), “hanno diffuso le loro idee con mezzi gramsciani”, egemonizzando la cultura sociale ed economica attraverso la costruzione di un “intellettuale collettivo” che, nel modo attuale, decide come “governare” l’economia globale, “con le drammatiche conseguenze di cui facciamo ancora oggi esperienza”.
Gallino ricorda come Friedrich August von Hayek, il fondatore nel 1947 della MPS, anziché promuovere la costituzione di un centro per l’approfondimento dello studio di un ramo particolare della scienza economica, abbia scelto di costruire su larga scala una sorta di pensiero unico, chiamando “a raccolta un piccolo gruppo di economisti e altri intellettuali (tra cui Maurice Allais, Walter Euken, Ludwig von Mises, Milton Friedman, Karl Popper)”. Il gruppo dei fondatori, inizialmente esiguo e di origine prevalentemente europea, negli anni successivi alla fondazione della MPS si è espanso a livello globale. Rilevante è stata la partecipazione italiana, dovendosi annoverare tra i suoi primi soci Luigi Einaudi, mentre altri italiani negli anni successivi sono entrati a farne parte; due di essi (Bruno Leoni e Antonio Martino) ne sono stati anche presidenti.
L’”intellettuale collettivo”, originato dall’attività e dall’impegno dei soci della MPS ed inseritosi per lo più nel mondo accademico, non ha redatto, secondo Gallino, “ambiziosi manifesti programmatici […], o grandi progetti di riforme istituzionali”; ha prodotto, invece, “migliaia di saggi e di libri […], che ruotano tutti intorno ai temi che per i soci della MPS erano e sono l’essenza del neoliberismo: la liberalizzazione dei movimenti di capitale; la superiorità fuor di discussione del libero mercato; la categorica riduzione del ruolo dello Stato” ed altro ancora. Grazie all’immenso lavoro degli associati, continua Gallino, alla fine degli anni Settanta le “dottrine” economiche e politiche neoliberali hanno occupato “tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi, sino a divenire, secondo Dieter Plehwe, “uno dei più potenti corpi di conoscenza della nostra epoca”.
Due caratteristiche, secondo Gallino, segnerebbero l’egemonia della MPS sulla cultura e la prassi economico-politica delle economie capitalistiche, a partire dagli anni Ottanta. La prima sarebbe la prevalenza pressoché indiscussa su ogni altra corrente del pensiero economico; grazie a questa egemonia, uno dei principi del “pensiero unico” dell’MPS, quello della liberalizzazione dell’economia, per sottrarla all’incombente presenza dello Stato, avrebbe determinato la primazia del sistema finanziario sulla politica, non meno che sull’economia. La seconda caratteristica sarebbe invece la pressoché inscalfibile cultura economica liberista diffusasi con l’attività e l’impegno dei soci della MPS; inscalfibilità che ha resistito alle molte critiche per gli insuccessi ai quali sono andate incontro le “ricette” di politica economica neoliberiste attuate negli ultimi tempi, come starebbero a dimostrare le politiche di austerità che gli economisti neoliberali hanno imposto ai Paesi dell’Unione Europea, senza per questo consentire che venisse superata la crisi subita dall’intera Unione per effetto del crollo dei mercati immobiliari americani.
La narrazione di Gallino coglie certamente nel segno, riguardo alla storia della MPS e dei suoi affiliati; si deve tuttavia osservare che le “dottrine” neoliberiste sono state elaborate anteriormente al 1947, dopo il famoso “Colloquio di Parigi”, un convegno svoltosi nel 1938 per iniziativa del sociologo ed economista tedesco Alexander Rüstow, che per primo ha coniato il termine neoliberismo. Al “Colloquio” hanno partecipato, oltre a Wlater Lippmann, famoso giornalista e saggista americano, Friedrich von Hayek, Wilhelm Röpke, Ludwig von Mises, Michael Polanyi, Raymond Aron ed altri ancora. Il “Coloquio” è stato volto a formulare una nuova visione di liberismo economico, meno incline al laissez-faire, ma pur sempre schierata a sostegno della teoria economica liberale. Tuttavia, gli scopi dei partecipanti al “Colloquio” erano ben diversi da quelli di una difesa “fondamentalista” del laissez-faire originario, in quanto consistevano nel ridiscutere il pensiero liberale, per acquisirne una visione compatibile con una regolazione del mercato, al fine di garantire un suo funzionamento più razionale.
Reduce dal “Colloquio”, Friedrich von Hayek ha fondato nel 1947 la MPS, con l’intento di continuare a perseguire gli scopi del “Colloquio”, ma anche, come ha sottolineato Milton Friedman, uno dei più autorevoli membri della società fondata da Hayek, per predisporre un valido presidio dei principi liberali in economia, contro la forte ascesa degli statalismi del dopoguerra, ispirati dal keynesismo; quest’ultimo sosteneva infatti la necessità di una correzione da parte statale del sistema economico, per dare vita a forme di economia mista, utile a rimuovere i vari casi di fallimento di mercato. E’ stato perciò Friedman a determinare l’abbandono da parte della MPS dell’originario impegno di ridiscutere il liberalismo classico, per adeguarlo alla necessità di una maggiore regolazione del mercato, sia pure in difesa del solo suo corretto funzionamento, quindi a trasformare, all’inizio degli anni Ottanta, il neoliberalismo in una “costola della globalizzazione”, fino a conformarlo ai principi ispiratori degli obiettivi perseguiti dalle politiche conservatrici di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher.
Al di là delle vicende che hanno caratterizzato l’evoluzione del pensiero neoliberale a partire dal 1938, la sua confluenza nella logica della globalizzazione è il risultato dell’accettazione delle “ricetta” che Friedman ha formulato nell’opera Capitalismo e libertà; tale ricetta è fondata su tre principi (deregulation, privatizzazione e riduzione delle spese sociali) e rappresenta la “mappa” di riferimento per le politiche che hanno dominato il mondo a partire dagli anni Ottanta. Con la deregulation, Friedman, riprendendo la teoria di Ricardo sull’abolizione dei dazi doganali, e più in generale delle tasse protezionistiche, ha proposto l’annullamento di tutte quelle regole e norme che limitavano l’accumulazione del profitto; con la privatizzazione, partendo dal dogma della maggiore efficienza dei privati rispetto al pubblico, egli ha auspicato la sostituzione dei servizi pubblici nel campo della sanità, delle poste, della scuola, ecc., con servizi privatizzati. Con la riduzione delle spese sociali, infine, al fine di “ripulire” l’economia inquinata dall’attività dello Stato, Friedman ha proposto di ridurre drasticamente le spese sociali, attraverso il taglio dei fondi per il sistema pensionistico, l’assistenza sanitaria, il salario di disoccupazione ed altro ancora.
La ricetta, che passerà nell’immaginario collettivo come “dottrina neoliberista”, è stata presentata da Friedman e dai suoi seguaci come una vera e propria “scienza esatta”. Qui sta il clamoroso successo di una pratica economica, risultata smentita dall’esperienza e dalla verifica empirica: presentare, con la pretesa dell’“imparzialità scientifica”, ipotesi di politica economica del tutto prive di coerenza con la realtà, ma di straordinario beneficio per i gestori dei settori più dinamici della finanza e della imprenditorialità mondiale.
Che impatto hanno avuto le politiche neoliberiste sulle società occidentali? A tale interrogativo non è stata data ancora una risposta univoca; da un lato, perché non si è ancora adeguatamente indagato su quali siano state le cause della genesi di una stagione politica ed economica, che ha conosciuto il suo apice in Gran Bretagna e Stati Uniti negli anni Ottanta, condivisa e sorretta, oltre che dal pensiero conservatore, da quello progressista; dall’altro lato, perché non è stato ancora adeguatamente chiarito come, sul piano politico ed economico, le forze riformatrici abbiano potuto accettare di adeguarsi alle politiche conservatrici di Reagan e della Thatcher, che hanno condotto all’attuazione di un progetto politico e economico talmente stravolgente da comportare altissimi ed ingiustificati costi sociali.

2 commenti

  • 1 aldo lobina
    24 Ottobre 2015 - 13:57

    Segnalo un interessante articolo di Raniero La Valle che in qualche modo riguarda le stesse tematiche trattate nell’articolo con riferimento ai tentativi maldestri di cambiare la nostra Carta Costituzionale lmercoledì 21 ottobre 2015
    PERCHE’ BLINDARE IL POTERE?

    di Raniero La Valle

    C’è una domanda che il papa fa nella “Laudato sì”, ed è una delle ragioni per cui egli oggi è così duramente combattuto nel Sinodo e fuori: “Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era necessario ed urgente farlo?” (L.S. n. 57).
    Il potere incapace, immeritevole di essere mantenuto, è quello che non cura la casa comune e che la gestisce con un’ “economia che uccide”; e la casa comune nel pensiero di papa Francesco non è solo la Terra, ma comprende anche gli uomini, le donne, i poveri, i popoli.
    Che questo potere sia invece perpetuato, rafforzato e liberato dai limiti e dalle garanzie statuite dalle Costituzioni postfasciste, fu chiesto dal capitale finanziario e in particolare dalla finanziaria JP Morgan già il 28 maggio 2013. Essa si lamentava di queste Costituzioni “influenzate dalle idee socialiste”, e indicava delle caratteristiche dei sistemi che ne derivavano che dovevano essere cambiate. E le caratteristiche erano le seguenti: “esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti, poteri centrali deboli nei confronti delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori” nonché “la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo”. Era questo che turbava la banca americana e anche oggi la richiesta che sale dall’attuale sistema economico-sociale è quella di blindare i poteri esistenti perché tutto possa continuare com’è e non ci siano ideali avveniristici a turbare i sonni degli gnomi della finanza.
    Questa richiesta è stata esaudita “in fretta”, come è di moda oggi in Italia, il 13 ottobre scorso con il voto del Senato sulla riforma costituzionale. Sicché si può dire che salvo sorprese nella seconda lettura parlamentare e la vittoria del NO nel successivo referendum popolare, quella Costituzione promulgata nel 1947 e sgradita alla finanza, in Italia non esiste più.
    Essa è stata abrogata in tutta la sua parte concernente l’ordinamento della Repubblica e sostituita con un’altra. Attraverso questa sostituzione a parere di molti quella che era “la Costituzione più bella del mondo” è diventata (diventerebbe) anche nella forma, nel tecnicismo e nell’ermeticità del linguaggio, la più brutta. Però sarebbe efficace nel perseguire gli obiettivi voluti: avremo il Parlamento dimezzato, ridotto da due Camere a una; l’esecutivo padrone dell’agenda dei lavori parlamentari (avrà leggi approvate a data fissa); un solo partito identificato col governo e detentore di una maggioranza assoluta attribuitale dalla legge vigente “Italicum” grazie al premio di maggioranza; la fiducia, non più dovuta dal Senato, assicurata alla Camera dal solo partito del presidente del Consiglio, che non sarebbe una vera fiducia perché inquinata dal vincolo della disciplina di partito, restando irrilevante il voto di altri gruppi, a differenza di quanto avviene nelle coalizioni; i rapporti di forza governo-regioni modificati a favore del centralismo statale; i diritti dei lavoratori già sacrificati dal Jobs Act e dalla frana del sistema contrattuale non avrebbero difesa, e quanto alla “licenza di protestare” le forme di democrazia diretta sono rese più difficili, la stessa rappresentanza viene mortificata con la nomina dei deputati e la riduzione del pluralismo politico; gli organi di garanzia saranno ridimensionati, a cominciare dal presidente della Repubblica, a causa del peso decisivo del partito dominante e dell’uomo al comando nell’esprimerli; e la Costituzione sarà indebolita nella sua capacità di resistere ad altre avventate future riforme.
    Anche il modo nel quale la Costituzione repubblicana viene travolta è il segno di una sofferenza e anzi di un lutto della democrazia. La Costituzione del 47 fu approvata da un’Assemblea costituente espressa e legittimata dai cittadini, usciti dal fascismo e dalla Resistenza. La nuova Costituzione è approvata da un Parlamento di nominati dai partiti, delegittimato da una sentenza della Corte Costituzionale che lo ha giudicato non rappresentativo della sovranità popolare a causa del “Porcellum” con cui è stato eletto. La Costituzione del 47 fu approvata con 458 voti contro 62 e tutti i leaders parteciparono al voto. La nuova Costituzione è stata approvata il 13 ottobre dal Senato con 178 voti su 321 senatori (143 tra assenti contrari e astenuti); Renzi non ha votato perché non appartiene ad alcuna Camera, non essendo mai stato eletto, ma avendo acquisito il potere attraverso primarie non previste in alcuna Costituzione o legge. La Costituzione del 47 aveva dietro di sé secoli di esperienze e di lotte. La nuova ha dietro di sé, come ha rilevato Massimo Cacciari, una Boschi poco più che trentenne. E l’Italia cessa di essere una democrazia parlamentare.
    Come dice un appello di illustri costituzionalisti, bisogna dunque battersi contro questa modifica della Costituzione “con una battaglia referendaria come quella che fece cadere nel 2006, con il voto del popolo italiano, la riforma — parimenti stravolgente — approvata dal centrodestra”.
    Ma intanto bisognerà ricominciare a pensare alla politica, a come lottare per l’eguaglianza, la pace, i diritti, nelle condizioni di eclissi della democrazia.

    RANIEROLAVALLE.BLOGSPOT. COM

  • 2 CHE FARE? Buoni esempi dalla Storia: “… Così fece Roosevelt nella crisi del ‘29, mettedo insieme sindacati, imprenditori disponibili e tutte le migliori energie intellettuali, avendo a cuore inanzitutto il lavoro. Fu proprio questa l’arma
    16 Settembre 2016 - 08:53

    […] per il Paese e poi dar gambe all’ostilità che le forze iperliberiste, a partire dal 1947 con la fondazione della Mont Péleren Society (MPS) hanno sempre manifestato per le costituzioni nate dalla Resistenza, secondo loro, troppo […]

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