Andrea Pubusa
Caro Massimo,
devo ammettere che il Dadea notista de L’Unione sarda è migliore del Max assessore regionale alle Riforme di Soru. Allora, eri ossequioso e allineato anche quando le iniziative del Capo erano a dir poco discutibili. Caro Massimo, da assessore alle Riforme all’assassinio dell’autonomia hai concorso pure tu e più di altri. L’Assessore Dadea ha sostenuto il primo e più duro attacco all’autonomia, quello portato da Soru, con la sua legge Statutaria, che accentrando, berlusconianamente (oggi diremmo renzianamente), i poteri su se stesso, sanciva la fine della piena rappresentatività del Consiglio regionale. Soru inoltre ha attaccato l’autonomia ancor più con la sua condotta autoreferenziale, che è appunto, al di là del merito delle posizioni, l’antitesi dell’autonomia, che è un fatto comunitario non di governanti.
Dico questo, caro Massimo, non per condannarti per sempre, per gettarti nelle fiamme eterne, ma per rallegrami sinceramente con te per il ravvedimento. Anche se il ripensamento, quello vero, implica una espressa rivisitazione in termini critici di quanto si è fatto. Un tempo si chiamava autocritica ed era una virtù se non era rituale. Ma, conoscendoti, per aver condiviso con te due legislature in Consiglio regionale, non ho motivo di credere che tu sia insincero. E allora, benvenuto, caro Massimo, fra noi autonomisti di tutte le stagioni e perenni libertari impenitenti ! Meglio tardi che mai!
Comunque, benché pure tu le abbia dato una pugnalata, caro Massimo, hai ragione nel dire che l’Autonomia è morta. Lo è perché è morto lo Stato italiano. Solo gli incolti e gli ingenui hanno sempre pensato che l’autonomia regionale e locale implichi uno Stato debole. Niente di più sbagliato. Regioni forti e Stato forte sono un binomio inscindibile. La chiave di tutto è che ognuno sia forte nel proprio ambito, nella sfera di competenza sancita dalla Costituzione. Non solo, ma la Carta deve delineare un criterio di riparto delle funzioni razionale, così da assegnare allo Stato poteri e funzioni di carattere generale e alle Regioni e agli enti locali quelle che più direttamente interessano le rispettive comunità.
La morte dello Stato è connessa alla dismissioni del ruolo pubblico di esso a seguito degli attacchi dell’iperliberismo, di cui sono diventati alfieri anche coloro che si presentano come esponenti della sinistra. Che differenza c’è stata in questi anni nell’attacco a Welfare fra PD e PDL ora FI? A tutto voler concedere, sfumature. L’attacco è venuto dagli uni e dagli altri. Gli uni hanno continuato l’opera degli altri e viceversa. E’ evidente che in questa connessione pensare a Regioni forti è pia illusione. L’attacco allo Stato espone le autonomie allo stesso trattamento e, nell’erosione generale dei poteri pubblici, ad una concorrenza fra Stato e Regioni, anziché ad una leale collaborazione. Lo Stato ha cercato così di compensare in sede locale la perdita di forza nazionale. Il dato è particolarmente evidente se guardiamo alle risorse finanziarie. Lo Stato fa economie, scaricando gli oneri a Regioni e Comuni, che hanno finito per diventare i gabellieri più odiosi, tanto da trasformare gli stessi parcheggi in luoghi di rapina e ad inventarsi le sanzioni più assurde pur di far cassa. A Catania ho scoperto nei giorni scorsi che parcheggiare nelle strisce azzurre senza pagare il pedaggio è sanzionato fino alle tre di notte. Rapina aggravata dal fatto che dopo le 20 o le 21 i parcheggi si spopolano e, dunque, non c’è ragione di limitare la sosta con un corrispettivo.
L’autonomia è morta, dunque, perché sono mutati le funzioni e il ruolo degli enti locali. Prima strumenti di autodeterminazione e di sviluppo dei servizi alla persona, ora percettori di balzelli e sanzioni, per di più privati del carattere pienamente rappresentativo, che è connesso anzitutto a leggi elettorali serie. Oggi abbiamo podestà e non sindaci, a capo delle Regioni abbiamo dei ras che governano con meno del 20% dei consensi (vedi l’ineffabile Pigliaru), mentre a livello nazionale abbiamo un ducetto non eletto, che attua un programma di svuotamento della rappresentatività, in violazione della lettera e dello spirito della Costituzione, che nessun elettore gli ha mai approvato. Il buon Bersani, infatti, aveva chiesto il voto per smacchiare il giaguaro non per sostituirlo e continuarne l’opera.
Non è un caso che oggi questa politica autoreferenziale sia anche il luogo del malaffare. Cessato il vincolo rappresentativo, spezzato il legame col corpo elettorale, smarrita l’idea che si svolge una funzione nell’interesse altrui, nell’interesse generale, cosa rimane? La miseria delle cene a spese dell’erario, l’utilizzo privato dei fondi dei gruppi, la brutta pagina degli affari truccati, la svendita del patrimonio pubblico, la speculazione perfino sui fondi destinati ai diseredati della terra, poveri e migranti. Senza democrazia, rimane la miseria attuale, anzitutto morale, con ricadute devastanti sui cittadini, espropriati dei diritti fondamentali e perfino del lavoro.
2 commenti
1 Franco Boi
15 Ottobre 2015 - 12:47
Io sono stato da sempre un federalista e tale rimango !Rispetto molto le vostre opinioni sull’Autonomia anche se non le condivido in non pochi punti fondamentali !E non mi sogno neppure di effettuare giravolte !Però se dovessi cambiare opinioni farei prima una bella autocritica ,come tu giustamente ritieni doversi fare !E sicuramente non porterei la bandiera dell’Autonomia ,che possono portare solo gli Autonomisti che lo sono da sempre .Cari saluti e complimenti per la rivista .Franco Boi
2 admin
15 Ottobre 2015 - 13:13
Un amico mi ha inviato questa rusposta di Massimo Dadea, apparsa su facebook.
L’articolo pubblicato da Andrea Pubusa sul suo blog, da titolo ” Caro Massimo,
l’Autonomia l’hai pugnalata pure tu, ma è morta perché è morto lo Stato”, merita una risposta.
Caro Andrea, quando ho scritto che la responsabilità maggiore per il fallimento dell’Autonomia è da individuarsi nella classe dirigente politica sarda, non volevo certo sottrarmi alle mie responsabilità e quindi, sono sicuro, non vorrai certo sottrarti alle tue, vista la tua lunga esperienza di consigliere regionale e di presidente della prima commissione(Autonomia) del consiglio regionale. Purtroppo devo contraddirti a proposito della legge Statutaria, da me presentata in qualità di assessore alle riforme: hai scelto proprio un esempio sbagliato. La legge statutaria ha rappresentato l’affermazione concreta di una nostra inalienabile prerogativa autonomistica. Per la prima volta il consiglio regionale ha potuto decidere, in piena libertà, su parti importanti del nostro Statuto senza doverle contrattare con il Parlamento italiano: forma di governo, legge elettorale, rapporti tra esecutivo e legislativo, partecipazione dei cittadini, ineleggibilità e incompatibilità, conflitto d’interessi, numero e competenze degli assessorati, presenza paritaria di uomini e donne nel governo regionale e nei vertici dell’amministrazione regionale. Da anni tutto questo era nella disponibilità del legislatore regionale che si è guardato bene da darle concreta attuazione. L’elezione diretta del Presidente è stato un tema su cui ci siamo scontrati spesso. Vorrei ricordarti: l’elezione diretta pone al centro il cittadino: è il cittadino che sceglie liberamente il Presidente, il programma di governo e la maggioranza consiliare. Il cittadino diventa arbitro della politica. La verità è che chi demonizza l’elezione diretta nasconde un certo rimpianto per i tempi in cui le decisioni venivano affidate alla opacità delle consorterie, alle ristrette oligarchie dei partiti. Una visione “elitaria” della politica, che nasconde una profonda sfiducia nell’intelligenza dei cittadini, nella loro capacità critica: l’elezione del Presidente è cosa troppo seria per essere lasciata nelle mani di “ignari” e “sprovveduti” cittadini.La verità è che la legge statutaria rappresentava un guadagno di Autonomia, un di più di Autonomia, un esercizio di sovranità. Quella legge statutaria fu approvata a maggioranza assoluta dei componenti del consiglio regionale. Di lì a poco alcuni consiglieri regionali, che quella legge avevano votato, innescarono una bomba ad orologeria che, attraverso la richiesta di un referendum abrogativo, fece saltare la riforma istituzionale più importante della legislatura. Ancora una volta, di fronte al tentativo più determinato di modificare in profondità la realtà politica, istituzionale, economica e culturale della Sardegna, si saldarono le forze della reazione: l’innaturale connubio tra conservatorismi di destra e di sinistra.
P.S. Sono trascorsi sette anni e ancora stiamo aspettando una nuova legge Statutaria.
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