Immigrazione: i tabù e le questioni di fondo

10 Ottobre 2015
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Gianfranco Sabattini

Nel dibattito sui migranti, aperto da Francesco Cocco, ecco la riflessione di un economista.

Sul problema dell’immigrazione, questo “Blog” ha fatto bene ad accogliere la provocazione di Francesco Cocco del 7 u.s. Mi si consenta di ricordare che tempo addietro, su questo stesso “Blog”, ho avuto modo di pubblicare diversi articoli sul problema in questione; quello tra questi che, anche alla luce degli interventi ultimi (oltre a quello di Francesco, quelli di Tonino Dessì e di Lucia Pagella), mi sembra essere più pregnante è il commento a un libro di Paul Collier, discendente egli stesso da una famiglia tedesca, emigrata in Germania anteriormente al primo conflitto mondiale.
Collier, professore di economia alla Blavatnik School of Governement e direttore del Centre for the Studies of African Economies, ha criticato, sulla base della sua esperienza personale in “I tabù dell’immigrazione”, il pensiero dominante sul problema, condiviso tra quanti sostengono che una politica delle “porte aperte” nei confronti dei migranti è “un imperativo etico”, che in più garantirebbe “grandi benefici”, denunciando nel contempo la tendenza di tale pensiero a nascondere convincimenti conservatori e reazionari e intrisi “di accenti xenofobi e razzisti”, ampiamente diffusi tra i comuni cittadini, che i migranti concorrerebbero a cancellare l’identità dei popoli “ospitanti”.
Collier ha evidenziato anche che la scelta da parte delle generazioni successive dei migranti originari di abbracciare una conveniente nuova identità, così come aveva fatto il padre di Collier, non può essere la garanzia di una possibile pace sociale. Ciò può accadere solo se i migranti sono disposti ad accettare, senza se e senza ma, la cultura delle popolazioni dei Paesi ospitanti; ma se il migrante considera non negoziabili i propri valori identitari, cosa succede? Il multiculturalismo, tanto caro ai progressisti, è in grado di garantire un livello sopportabile di integrazione di tutte le diaspore culturali? Alla luce dei fatti che caratterizzano il mondo attuale, la probabilità che ciò possa verificarsi è molto prossima a zero.
Come risolvere allora il problema? Lucia Pagella ricorda che, per la soluzione di qualunque problema, “è necessario anzitutto capirne le cause e poi agire su di esse diversamente si rischia di cercare di svuotare il mare con un cucchiaio”. Tonino Dessì, dal canto suo, ricorda che sarebbe necessaria una “sponda “internazionalista”, in grado di offrire sostegno a eventuali lotte endogene per l’indipendenza politica e per la giustizia sociale nei Paesi dai quali proviene l’esodo delle moltitudini in fuga che stanno giungendo da noi”. Giusto! Ma che dire delle classi dirigenti dei Paesi d’origine dei migranti, conniventi con gli oligarchi che hanno egemonizzato il governo dell’economia-mondo? Al riguardo, non va dimenticata la fine che hanno fatto le primavere arabe.
Francesso Cocco, lamenta il fatto di non disporre delle capacità per avanzare suggerimenti per la soluzione del problema dei immigrati, esprimendo il “fastidio per certo buonismo semplicista”, convinto del diritto dei popoli di costruire la propria storia nella realtà dove il destino li ha fatti nascere e del dovere dell’Occidente d’essere disposto i pagare il suo debito storico, “rinunciando in non piccola misura, all’opulenza con un’equa distribuzione della ricchezza a livello mondiale.
Se si riflette sulle reali cause dei movimenti migratori non si può ignorare che i migranti – come dice Lucia Pagella – “fuggono perché i loro Paesi sono in guerra oppure perché le condizioni economiche sono tali da non consentire un minimo di sussistenza”. Si tratta di un fatto arcinoto ribadisce La Pagella, così com’è arcinoto il fatto che solo un numero ristretto di Paesi possa accogliere tutti i disperati che fuggono dalle loro contrade d’origine. Ora, senza avere l’intenzione di voler proporre una spiegazione esaustiva delle cause del fenomeno dei flussi di migranti, sono convinto che occorra, come si suole dire, “andare a lezione dalla storia”.
L’emigrazione non è un fenomeno contemporaneo; esso ha caratterizzato, nelle forme che esso assume attualmente, anche l’antichità, che i libri di scuola insegnano a memorizzare con l’espressione, poco appropriata, di “invasioni barbariche”, evocante in realtà, non un’invasione, ma una, come viene detto in lingua tedesca, “migrazione di popoli” (Völkerwanderung). Da che cosa erano determinate tali migrazioni? Sicuramente dalle stesse cause delle migrazioni attuali, ovvero dal fatto che la distribuzione delle opportunità di vita e di sicurezza delle genti fosse ineguale nelle varie contrade del mondo di allora; ergo, a costo di qualunque sacrificio, le genti si spostavano verso le aree dove le condizioni di vita e di sicurezza risultavano migliori. Il fenomeno è durato secoli ed ha messo a soqquadro l’area politicamente ed economicamente più evoluta ed organizzata, l’Impero romano, mentre la soluzione è stata trovata consentendo ai “barbari” di insediarsi all’interno dell’area di destinazione o in sua prossimità; in tal modo, lentamente, pur in presenza di conflitti ed anche di vantaggi per migranti e popolazioni ospitanti, i “barbari” si sono integrati.
Dopo di allora le condizioni di vita e di sicurezza si sono stabilizzate per tutti su basi paritarie, nel senso che, salvo disparità molto contenute, tutti i popoli si sono trovati a vivere in condizioni di povertà e in tali condizioni si sono conservati sino alla Rivoluzione industriale. Questa, dopo circa centocinquanta anni, ha creato il mondo attuale, caratterizzato da profondi squilibri, non solo all’interno dei singoli popoli, ma anche nei rapporti tra popoli diversi. Le disuguaglianze, anche grazie a un’infinità di fattori (quali: globalizzazione, democrazia, affievolimento degli Stati-nazione, ecc.) sono risultate intollerabili, sino a motivare chi ne avesse subito gli esiti ad emigrare verso quelle aree socio-politiche, come quelle occidentali, più “penetrabili” per ragioni organizzative sul piano politico, ma anche per una loro maggiore sensibilità etica rispetto ad altre aree mondiali.
In conclusione, senza qui voler prefigurare, come ho già detto, una soluzione univoca del problema della migrazione, occorre riconoscere che, sin tanto che non si avrà una presa di coscienza a livello mondiale della necessità di ridistribuire le condizioni di vita e di sicurezza, il fenomeno migratorio sarà destinato a durare, mentre la soluzione dei disagi e dei conflitti che la persistenza dei flussi migratori procurerà ai singoli Paesi verso i quali si indirizzeranno dipenderà dalla lungimiranza della classe politica e di quella civile dei Paesi ospitanti.

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