Tonino Dessì
Ecco una riflessione e una risposta alla “provocazione” di Francesco Cocco sui migranti.
Caro Francesco,
le tue domande, sul piano del rigore concettuale, sono abbastanza serie, se si considera che nascono da una cultura “rivoluzionaria” e (perchè non usare la parola giusta?) “comunista”. Tuttavia una condivisione altrettanto “concettuale” non mi pare possibile, perchè oggi non esiste una sponda “internazionalista” che possa offrire sostegno a eventuali lotte endogene per l’indipendenza politica e per la giustizia sociale nei Paesi dai quali proviene l’esodo delle moltitudini in fuga che stanno giungendo da noi. Queste moltitudini, tra l’altro, non sono (ancora) costituite dall’enorme massa di gente che resta inchiodata, particolarmente in Africa, in condizione di bruta schiavitù e che non avrebbe nemmeno i mezzi per concepire un suo spostamento in un altro luogo della stessa Africa o di un altro continente (due-tremila euro, talvolta quattromila, per essere imbarcati in uno dei natanti della morte, sono già abbastanza più di quello che una famiglia europea pagherebbe per qualsiasi regolare trasporto turistico o lavorativo, in aereo o in nave). Quel danaro lo racimola con immensi sforzi solo chi può, per le capacità di colletta di una vasta rete familiare o per una condizione personale particolarmente privilegiata. Si tratta ancora di un’entità demografica limitata, a ben pensarci. Dall’Africa e dalla vicina Asia attualmente stanno scappando strati di popolazione prevalentemente urbana, di studenti, di lavoratori e di ceto medio (quelli cioè che nella storia in genere pensano e guidano le rivoluzioni), perchè ciò che sta avvenendo nei luoghi di provenienza è la “tabula rasa” di ogni condizione, anche elementare, di sopravvivenza. Tra eserciti “formali”, eserciti tribali, eserciti “privati”, eserciti delle grandi multinazionali, interventi militari di destabilizzazione USA, NATO, di singoli Paesi (Francia in testa tra le nazioni europee), in tutta una larga fascia a sud della sponda asiatica e africana del Mediterraneo c’è “l’orrore”, per usare un’espressione di Konrad. Se penso all’IS, poi, mi convinco che siamo a una fase del tutto nuova, quasi fantascientifica, della storia contemporanea. Un’organizzazione di predoni o di pirati del terzo millennio (non inganni la copertura ideologico-religiosa), appoggiata da mercenari (più di trentamila foreign fighters, ma forse è un calcolo per difetto) ha finora occupato territori, seminato il terrore, sterminato popolazioni, acquisito enormi mezzi economici e militari, abilmente muovendosi tra le connivenze, le convenienze e le complicazioni di una politica “ufficiale” - quella degli Stati e delle loro organizzazioni e alleanze - che non è più l’unica protagonista dei confronti e degli scontri per il dominio. Non voglio allargare troppo il discorso, ma si tratta del corrispettivo di quanto è ormai acclarato, nel sistema-mondo, in economia e nella finanza. Di fatto (ma anche di diritto, nell’attuale iperliberismo, caratterizzato dall’eliminazione di regole e di controlli dentro e tra sistemi fino a un ventennio fa comunicanti, tuttavia ancora relativamente chiusi), l’economia e la finanza giuridicamente illegali sono entrati prepotentemente nella dinamica degli scambi planetari. L’accaparramento e il commercio di beni di rapina, la gestione dello schiavismo e della tratta di persone e di parti di persone, la produzione e la commercializzazione di stupefacenti e di armamenti, i capitali derivanti dalle predette attività “produttive” e i proventi della corruzione rappresentano approssimativamente un terzo (ma forse anche questo è un dato approssimato per difetto) del sistema economico -finanziario mondiale. Non ci si può troppo stupire se si manifestino concretamente anche soggetti organizzati politicamente e militarmente in conformità e come proiezione di queste concretissime manifestazioni del corso economico e finanziario e che tali soggetti reclamino, anzi, impongano la propria presenza. E’ uno scenario nel quale, dal punto di vista esistenziale, il massimo che si può tentare, nelle realtà colpite da questi scontri brutalissimi tra soggetti e interessi, è la fuga individuale verso luoghi nei quali ancora si ritiene di poter salvare la pelle e di garantirsi una condizione “protetta”. Noi non possiamo che spingere al massimo per un’accoglienza incondizionata di chi non può che fuggire. Certo, nel contempo non possiamo non avvertire tutti, nei Paesi occidentali, che questa solidarietà umanitaria obbligata avrà un costo enorme. Al tema posto dalla tua ultima domanda, quindi, si giunge comunque, anche se per altra via. Chi e come si dovrà accollare questo costo? Allo stato attuale il costo della solidarietà lo reggono la nostra fiscalità generale e la solidarietà capillare di un volontariato civile prevalentemente popolare. Parallelamente, tuttavia, la sensazione che si va diffondendo è che questo costo, anche in termini di concorrenza nell’accesso non solo al lavoro (che meriterebbe un discorso a sè), ma persino alle prestazioni del welfare, venga sostenuto proprio a discapito dei ceti più sofferenti della nostra società. Il che in parte è vero, per il noto motivo che l’iniquità del nostro sistema ha incrementato le condizioni di disagio interne. Il tema dell’equità e della giustizia si pone, come dici tu, proprio per le società europee, nelle quali questa fase della storia contemporanea ha determinato che ricchezza e potere si siano concentrate progressivamente verso l’”alto” della piramide. Ora, i casi sono due: o riparte un movimento per ricondurre a giustizia, anche redistributiva verso il basso, il nostro sistema economico, fiscale e sociale, oppure non ci sarà buonismo che tenga. Il conflitto interno è alle porte e il nostro sia pur precario quieto vivere (compresa la sua residua dose di spirito caritatevole) deflagrerà, con conseguenze che in alcuni Paesi membri della UE abbiamo già potuto constatare con angoscia. Neanch’io ho risposte di respiro “sistemico”, men che meno per affrontare un problema che non mi pare più di neocolonialismo e neppure di postcolonialismo, bensì di potente dispiegamento, senza intermediazione alcuna, della globalizzazione capitalistica contemporanea. La mia riflessione tocca il “qui ed ora”, quel che avverto come imminente in casa nostra e già questo scenario interno ha dimensioni non da poco.
Grazie per lo stimolo, Francesco.
2 commenti
1 francesco Cocco
7 Ottobre 2015 - 18:43
Grazie Tonino, volevo stimolare e vedo che il fine è stato raggiunto. Ma credo che occorra andare molto oltre l’89, la caduta del muro, l’inizio di una nuova storia e non già la fine della storia. Credo occorra allargare molto l’orizzonte sia verso il passato che verso il futuro.Tu sai bene che non siamo nati nel ‘17 e nel ‘21. Le nostre radici sono più profonde, si allungano nel passato e si proiettano in là di alcuni secoli. Parlo delle radici comuniste. Non a tutti è possibile comprenderlo, ma tu lo comprendi bene.
2 Tonino Dessi'
8 Ottobre 2015 - 01:55
Caro Francesco, consentimi di aggiungere alcune considerazioni che quasi per pudore mi sono trattenuto dall’inserire prima nel mio ragionamento, anche per fugare eventuali dubbi che io possa essermi fermato al 1989. In realtà personalmente mi corre l’obbligo di guardare non solo più indietro del 1917, ma soprattutto più avanti del 2015. Intanto, nell’immediato, non c’è tempo per farci frenare da riflessioni su integrazione, multiculturalismo, meticciato, ne’ in Sardegna ne’ altrove. I migranti sono un fiume in piena, non contenibile. Prima di tutto debbono trovar posto, essere soccorsi, essere assistiti degnamente, essere messi nelle condizioni di circolare e di raggiungere le mete geografiche e relazionali verso cui pensavano di essere diretti. Per personale esperienza so che ne’ la Sardegna ne’ l’Italia sono le destinazioni finali cui in stragrande maggioranza aspirerebbero di arrivare stabilmente. Ma molti dovranno rimanere. E poiché saranno comunque una presenza rilevante, loro e le successive generazioni vivranno con noi. Dovremo acconciarci a pensare a una convivenza davvero multiculturale. Del resto, immagino tutti sappiamo che, prima dei migranti, tanti extracomunitari sono già qui, come cittadini adottati da coppie italiane. E sappiamo anche che etica, scienza educativa, norme giuridiche consigliano e impongono che il loro inserimento da noi avvenga nel riconoscimento e nel rispetto della loro origine. Chi adotta un bambino africano, nero, sa che non dovrà guarirlo dalla malattia di essere un bianco europeo mancato. Insomma, cittadini sardi e italiani di colore già popolano i nostri paesi e le nostre città, anche in Sardegna. Quel che resta della nostra ragione ci guardi dai rischi di una anche implicita chiusura etnocentrica. Anche noi siamo usuari, non proprietari originari del luogo nel quale antiche migrazioni ci hanno depositato. Non abbiamo titolo alcuno per impedire che vi giungano altri, ne’ possiamo coartarli a negare la loro identità. Non si assimileranno: dovremo inventare regole, diritti e doveri laici comuni e reciproci per vivere insieme.
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