Gianfranco Sabattini
In un articolo apparso su “la Repubblica” dei giorni scorsi, “Senza padri non si fa rivoluzione”, Massimo Cacciari, sostiene giustamente che il ”nuovo si costruisce con i mattoni della storia. Per ogni innovazione risulta decisivo il rapporto con il ‘tempo di ieri’: compiere quello che la tradizione esige”; questa “legge di natura” vale in astratto per tutti i campi dell’agire umano, ma vale soprattutto nel campo del sociale. Raramente – afferma Cacciari – nel termine rivoluzione “suona l’idea della restauratio magna di un passato, che si immagina poter costituire la solida terra su cui procedere ancora…La novitas, il desiderio di res novae e verba nova… pervade infatti tutta la nostra cultura… Eppure le cose non stanno così semplicemente. La paura si mescola al desiderio. La ricerca e il dubbio intorno al fondamento del ‘nuovo’ si fanno sempre più assillanti, proprio in rapporto alla irresistibile affermazione della sua idea”.
Il “nuovo” per farsi accettare deve innestarsi sul tronco di un qualche passato. Quale figlio – si chiede Cacciari – “smanioso di innovare” si appella ai propri padri? Nessuno - osserva il filosofo - aveva studiato il proprio “nemico” meglio dei grandi rivoluzionari quali sono stati Karl Marx e Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin; il semplice rottamare “finisce inevitabilmente sepolto sotto le macerie che la storia […] per conto suo produce”. Per evitare questa fine ingloriosa, gli autentici rivoluzionari cercano sempre di fare emergere il “nuovo” “dall’interno delle forme politiche tradizionali, corrodendole e scavandole dalle viscere”; è così che il “nuovo” può apparire “come il trapassare del vecchio, non l’affermazione di una prepotente violenza, ma il prodotto dello stesso passato”. Solo in questo modo, inoltre, i novatores riformisti possono superare le paure che essi suscitano offrendosi ai contemporanei “come coloro che parlano e operano sulla base dell’autentico senso del passato; compiere ciò che la tradizione esige – conclude Cacciari – e che la sua lettura conservatrice impediva di comprendere è ciò che caratterizza l’impegno e l’attività dei grandi innovatori.
Le considerazioni di Cacciari servono ad illuminare i termini del dibattito che spesso riemergono tra i teorici del mutamento sociale realizzato attraverso la riflessività delle istituzioni, o di quella della comunità: ovvero, tra l’approccio “tecnocentrico del sapere” e l’approccio del “non-sapere” alla valutazione dei rischi connessi al mutamento sociale in generale. Il concetto di mutamento riflessivo è inclusivo, sia del sapere inteso come conoscenza del modo di funzionare dei sistemi sociali (riflessione), sia del sapere inteso come azione preventiva del non-sapere nei confronti dei rischi sociali indotti dal verificarsi del mutamento, considerato quest’ultimo come cambiamento complessivo rispetto al passato dell’organizzazione istituzionale e dell’organizzazione materiale di una data comunità.
E’ sul ruolo del contesto istituzionale che tra i teorici del mutamento riflessivo nascono i contrasti. Per alcuni (U.Beck e A.Giddens), il mutamento è contrassegnato da una riflessività istituzionale, da intendersi nel senso di una liberazione dei singoli individui dalle strutture ereditate dal passato attraverso comportamenti plasmati da un continuo flusso di conoscenze che vanno dalle istituzioni ai singoli componenti del sistema sociale; per altri (S.Lash), invece, il mutamento è contrassegnato, non dalla riflessività istituzionale, ma dalla “comunità riflessiva”, la quale rifiuta a priori il ruolo mediatico delle istituzioni, in quanto queste, concentrando prevalentemente al proprio interno il controllo del mutamento, implicano il pericolo che sia trascurato o rimosso il controllo sociale che si svolge al di fuori di esse; a ciò va aggiunta la considerazione che una riflessività istituzionale che riservi un ruolo primario alla scienza o ai sistemi esperti implica anche il pericolo che il controllo sociale del mutamento sia eccessivamente condizionato, riducendo irreparabilmente la possibilità di prevenire i rischi connessi alla possibilità che esso sia solo una rottamazione del passato.
Alcuni dei teorici del mutamento realizzato attraverso la riflessività delle istituzioni propendono, infatti, per l’attribuzione del controllo e del governo del mutamento sociale ai depositari del sapere; ma, tale propensione implica il convincimento che i singoli soggetti siano inidonei ad affrontare questioni complesse e ad esprimere giudizi critici sulle implicazioni del mutamento. I cittadini onnicompetenti sono giudicati un anacronismo; per costoro, la soluzione dei problemi connessi all’emersione del “nuovo” deve essere lasciata agli esperti, i quali, tra l’altro, sarebbero immuni, grazie all’accesso alla conoscenza scientifica, dall’influenza dell’emotività che si suppone prevalga sempre presso tutti i cittadini comuni.
Al contrario dell’ipotesi dell’approccio al mutamento secondo la riflessività istituzionale, l’ipotesi della comunità riflessiva (S.Lash) risponde all’idea che il controllo del mutamento dei sistemi sociali debba essere quello dei “non-esperti”; questa seconda ipotesi assume che in democrazia l’emergenza del “nuovo” può solo inverarsi attraverso il dibattito pubblico fondato sull’esperienza acquisita e non tramite la trasmissione istituzionalizzata ed unidirezionale di un’informazione esperta. L’informazione, che per i teorici della riflessività istituzionale costituisce la precondizione per il controllo del mutamento, in realtà è il prodotto del dibattito democratico sulle esperienze del passato; dibattito, questo, che è eluso dalla riflessività istituzionale.
Ma l’elusione del dibattito è resa impossibile dall’ipotesi della comunità riflessiva all’interno della quale coloro che la compongono, nonostante la diversità dei loro pareri sul passato, hanno tutti in comune la “cultura del discorso critico”; tale cultura, anziché essere limitata ad una ristretta élite di “professionals”, come alcuni vorrebbero è oggi nelle società moderne patrimonio di tutti. Ciò ha importanti conseguenze a livello sociale, come, ad esempio, il rifiuto di accettare qualsiasi decisione implicante obblighi per tutti senza pubblico confronto. Nel loro insieme queste conseguenze hanno consolidato nei componenti delle moderne comunità una propensione comportamentale di tipo razionale ed il rovesciamento della convinzione che all’assunzione ed all’attuazione delle decisioni implicanti l’assunzione di rischi e di obblighi comuni possano concorrere solo gli esperti (le élites professionali), in considerazione del fatto che, sebbene all’interno della comunità possano essere pochi i soggetti in grado di assumere decisioni razionali, tutti però sono in grado di valutarne gli effetti.
L’analisi dei processi decisionali collettivi effettuato secondo l’approccio della comunità riflessiva rifiuta, infatti, l’idea che la storia rappresenti il dispiegarsi automatico dell’accumulazione delle capacità umane e che le moderne comunità possano avvalersi infallibilmente di queste capacità; la cultura del discorso critico, propria delle società moderne, è valsa a radicare il convincimento che quando la critica, sorretta dalla consapevole accettazione del principio del fallibilismo nella formulazione e nell’attuazione delle decisioni collettive, non è vivificata dal senso del limite e dalla necessità che esse siano sottoposte al pubblico dibattito, può solo consentire che l’accumulazione conoscitiva realizzata faccia aumentare il rischio che il mondo intero venga ridotto in cenere e che il sogno di un improbabile “paradiso in terra” si riduca solo in un indesiderato “inferno”.
1 commento
1 Giorgio Corda
6 Ottobre 2015 - 11:45
Dopo aver letto questo, leggetevi i dati dell’ultima statistica relativa agli iscritti all’AIRE e ne capirete di più.
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