Leonardo Clausi
Torniamo sull’importante successo di Corbyn nelle elezioni per la scelta del leader del Labour Party, con questo articolo apparso su Il Manifesto del 13 scorso. L’evento merita attenzione perché, insieme a quanto avviene in Grecia e in Spagna, delinea una inversione di tendenza nella sinistra europea rispetto alla deriva neoliberista. C’è insomma una ripresa della sinistra, che, per quanto ancora in embrione, non va sottovalutata.
Tutto il potere a Jeremy Bernard Corbyn: la base del partito ha parlato quasi all’unisono, e ad alta voce. Con un’assordante maggioranza del 59,5 % delle preferenze ha eletto al primo turno un sessantaseienne che per 32 anni – dal 1983 – ha servito dalle retrovie della sinistra socialista votando quasi regolarmente contro la linea ufficiale. Il suo vice sarà Tom Watson, classe 1967, di Sheffield, un modernizzatore esperto in comunicazione digitale e implacabile nemico della stampa di Murdoch.
I risultati di ciascun candidato sono letti in ordine alfabetico. Nell’apprendere del suo miserabile 19%, il volto di Andy Burnham, il favorito iniziale, impietrisce: gli occhi paiono lucidi. Yvette Cooper riesce a incassare il proprio ancora più magro 17% con assai maggiore stile. Del 4,5% di Liz Kendall, unico candidato apertamente filomercato, si saprà solo più tardi, una volta placatosi il boato all’annuncio del megalitico 59,5% di Corbyn.
Strana coppia questo leader e il suo vice: accanto all’ascetico e allampanato Corbyn, il look da pubblicitario rampante di Watson lo fa sembrare il suo spin doctor. È anche questo un segno della cesura quasi antropologica che attraversa l’anima dell’ex New Labour, che sarà impari compito del nuovo leader colmare quanto più possibile.
Così Corbyn, il Cincinnato che ha lasciato con riluttanza le quiete operosa del suo orto — «vi cresceranno delle erbacce, ma vi farò presto ritorno» — aveva detto candidamente dopo essersi lasciato convincere alla candidatura, si è visto consegnare le chiavi del partito da una sala sbigottita, i cui sentimenti andavano dalla stizza amara al puro stupore, dal rassegnato cinismo alla supina accettazione, dalla preoccupata riflessione al più incontenibile entusiasmo. Non è difficile capire perché: Corbyn — l’uomo che cadde sulla leadership, a voler parafrasare il film di Nicolas Roeg con un indimenticabile David Bowie che interpreta un alieno — ha ricevuto più consensi di Blair stesso nel 1994. Un mandato ciclopico che ne fa il leader indiscusso, con buona pace dei non pochi professionisti di un partito da tempo ormai troppo a suo agio nella stanza dei bottoni.
Fu così che le mille anime del Labour party, diventato ormai una galassia da percorrere con il satellitare, si trovarono di fronte a un fatto compiuto quanto ineluttabile. Nel vociare delle reazioni alla vittoria e guadando le telecamere, l’uomo che in pochissimi avevano già sentito parlare e la cui esistenza prima di tre mesi era del tutto ignota ai più ha poi raggiunto il podio per il keynote speech, proprio come a Cupertino. Banco di prova enorme, quello del discorso: rito collettivo nel quale ci si stringe attorno al neo-leader osteggiato fino a poco prima secondo le sue capacità oratorie e teatrali. E davanti a una platea a dir poco frammentata in un caleidoscopico tumulto di emozioni contrastanti. Chuka Umunna, il giovane e dinamico aspirante leader «modernista», considerato il vero favorito alla leadership e protagonista di un sensazionale ritiro per questione di privacy, osserva con condiscendenza, inappuntabile nel suo completo simil-Savile Row.
Eppure Corbyn, un uomo chiaramente a disagio sotto i riflettori e che non può vantare la partecipazione giovanile a quiz della televisione commerciale né la familiarità con la Playstation di altri suoi colleghi europei, nel suo discorso ha fatto capire come proprio questa sua inadeguatezza mediatica strutturale, mescolata alla disperata ricerca di un senso da restituire alla parola socialismo da parte di così tanti membri e simpatizzanti Labour, sia la forza antiretorica (non antipolitica) alla base del suo successo.
Un discorso vagamente idealistico, posato ai limiti del pedestre, metaforicamente neutro. Lessico povero ai limiti dell’ascesi: che vuole trascinare senza virtuosismi, persuadere senza incantare. Soprattutto, preoccupandosi di soddisfare l’imperativo principale: quello dell’unità del partito. Sapendo di essere fino a ieri parte di una minoranza ex-perenne inspiegabilmente trasmutata in maggioranza nello spazio di tre mesi, sapendo che la propria elezione promette una ridda di reazioni tutt’altro che favorevoli da parte dell’establishment del partito, la sua prima preoccupazione è stata l’invito a stare uniti. La sfilza di umili ringraziamenti ai limiti del tedio a tutti, avversari compresi, andava proprio in questa direzione. Che non hanno mancato di toccare i cuori di Burnham, Cooper e Kendall, ai quali è stata tesa la mano dell’ecumenismo nel nome di una vittoria alle politiche del 2020 improvvisamente meno chimerica per tutti. Ripetendo, sì, «passione» e «appassionato» in quasi ogni frase. Ma anche usando frequentemente la parola «movimento», ormai bandita da qualunque abbecedario neolaburista. Parlando di pace, di uguaglianza, di ambiente e di tante altre cose «sconfitte dalla storia». E improvvisamente, complice forse un’improvvisa solidarietà nel nome delle recenti batoste subite, per un attimo molti sorrisi da circostanza si sono fatti sinceri.
Non avrà vita facile quest’alieno che i media di regime, come alcuni stessi compagni di partito, sono soliti descrivere come la tribute band di un trotzkismo anni Ottanta: il ministro ombra della sanità, Jamie Reed, annunciava quasi contemporaneamente le sue dimissioni. La componente parlamentare del partito gli è per il 90% ostile. Ma i numeri di Corbyn non si discutono: sedicimila volontari nella sua campagna, un’enorme partecipazione giovanile considerata «perduta», più di 500.000 fra iscritti o affiliati. Numeri – e idee — che in questo momento parlano di più e meglio di un buon comunicatore qualsiasi.
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