Il crepuscolo della banca d’Italia

17 Settembre 2015
Nessun commento


Gianfranco Sabattini

Il libro di Elio Lannutti, “La Banda d’Italia”, sferra uno sferzante attacco contro una delle istituzioni, la Banca d’Italia, considerata sino alla fine della Prima Repubblica una delle istituzioni più prestigiose del Paese: non solo per la severità comportamentale e professionale che l’immaginario collettivo coglieva delle figure dei suoi Governatori del secondo dopoguerra, ma anche e soprattutto per il contributo che alcune di esse hanno arrecato al Paese in momenti di grave crisi: quali, ad esempio, sono stati quello di Donato Menichella che, vigilando severamente sulla stabilità monetaria, ha consentito la ricostruzione postbellica e il successivo miracolo economico e quello di Paolo Baffi che, nella seconda metà degli anni Settanta, ha realizzato il “divorzio col Tesoro”, sottraendo il Paese agli effetti di un’insostenibile inflazione, con l’interruzione del sostegno diretto di “Bankitalia” al governo, cessando di acquistare i titoli di Stato che il Tesoro non riusciva a collocare sui mercati finanziari.
Secondo Lannutti, nel corso delle Seconda Repubblica, la massima istituzione creditizia del Paese ha “disonorato” il proprio nome, cadendo “nella polvere e nel fango”; l’autore sostiene che “il momento di svolta e di rottura definitiva” della Banca d’Italia con la sua gloriosa storia sia da rinvenire nel 2003, quando i presunti “severi controllori” di Via Nazionale non si sono accorti dello scandalo della Parmalat; scandalo, questo, che ha segnato l’inizio di una serie di altri gravi scandali che hanno caratterizzato la vita politica ed economica del Paese negli anni successivi. L’allentamento della vigilanza – secondo Lannutti - avrebbe gettato nel ridicolo credibilità e prestigio della Banca d’Italia che, “invece di servire sempre l’interesse generale del Paese e il bene comune, è stata troppe volte asservita agli esclusivi interessi delle banche socie, di cricche e combriccole amicali, andando a braccetto con i banchieri e con l’Abi, promuovendo la politica creditizia a misura dei più forti con i commissariamenti e rendendosi così complice di usi, abusi, vessazioni e ordinari soprusi”.
Ci sarebbe da prendere con “beneficio d’inventario” l’aggressivo atto d’accusa di Lannutti se l’allentamento della vigilanza di “Bankitalia” sull’attività delle banche, a partire dal caso Parmalat, non si fosse associato a comportamenti e decisioni dei massimi dirigenti dell’Istituzione che, in quello stesso torno di tempo, hanno dato origine al “pasticciaccio”, seguito al processo di privatizzazione delle banche.
Per capire gli effetti negativi, sul piano politico ed economico, del come sono stati gestiti gli effetti della normativa Amato-Ciampi, che ha dato il via alle privatizzazioni bancarie, occorre tener presente che la grande riforma bancaria del 1936 aveva reso la Banca d’Italia, costituita sotto forma di società per azioni, l’unica banca emittente e distribuito il suo capitale tra le principali banche, tutte rigorosamente pubbliche: i sei istituti di credito di diritto pubblico (Banco di Napoli, Istituto San Paolo di Torino, Banco di Sicilia, Monte dei Paschi di Siena, Banca Nazionale del Lavoro e Banco di Sardegna) e le tre BIN (Banche di Interesse Nazionale, Banche Commerciale Italiana, Banco di Roma e Credito Italiano) e altri enti pubblici e di assicurazione.
Rispetto all’assetto originario i partecipanti al capitale sono oggi profondamente cambiati, non solo nel nome, ma soprattutto nella natura giuridica; ieri erano soggetti pubblici, oggi sono privati e aspirano a spartirsi il patrimonio accumulato nel corso degli anni, sebbene non abbiano mai concorso alla sua formazione, neanche sotto forma di partecipazione al capitale. L’acquisto delle quote nel 1936, afferma il costituzionalista Mario Esposito (“Bankitalia e le riserve auree ai privati”, in Quaderni Costituzionali n. 12/2013, rivista telematica), è stato fatto rigorosamente con fondi pubblici e mai più nel corso degli anni sono stati chiamati a finanziare l’istituto di emissione.
La trasformazione intervenuta nel sistema bancario all’inizio degli anni Novanta e i processi di concentrazione realizzati negli anni successivi hanno accresciuto enormemente il peso percentuale del capitale della Banca d’Italia detenuto dai gruppi bancari di maggiori dimensioni. Secondo Esposito, la partecipazione di soggetti privati al capitale di “Bankitalia”, sancito dal d.l. n. 133/2013, è un’anomalia contra legem, nata nel momento stesso in cui le banche, dopo essere state privatizzate, invece di “consegnate” le quote di partecipazione al capitale dell’ex istituto di emissione allo Stato, hanno continuato a conservarle nel proprio patrimonio, nonostante fossero divenute società di capitali a regime puramente privatistico.
Contro la privatizzazione della Banca d’Italia, sancita dalla riconfigurazione dei soggetti ammessi a detenerne le quote, in gran parte di natura privata, è stato espresso parere negativo da alcuni economisti e giuristi. Questi hanno negato la sussistenza di un diritto dominicale di Palazzo Koch sulle riserve auree; ciò perché l’oro non è della Banca centrale, ma degli italiani, per cui deve essere restituito allo Stato, perché lo conservi e lo gestisca per conto e in nome dei cittadini.
Non è difficile immaginare, allora, lo scenario che si aprirebbe se, confermando la privatizzazione, si decidesse o si avesse necessità di riportare la Banca d’Italia in mano pubblica: le quote dovrebbero essere acquistate, ovvero espropriate facendo riferimento ad un valore esorbitante (si pensi che, nello stato patrimoniale della Banca al 31.12.2012 la voce “oro e crediti in oro” ammonta a 99.417.221.610,00 Euro), con prevedibili gravissimi effetti sul debito pubblico.
La rivalutazione delle quote privatizzate della Banca d’Italia, può portare con sé conseguenze tutt’altro che favorevoli per gli Italiani; sarebbe perciò auspicabile che il Parlamento disciplinasse con coerenza i numerosi problemi che la privatizzazione delle banche ha originato e continua ad originare, assumendo la consapevolezza del fatto che collocare la Banca d’Italia nel novero degli enti pubblici non è un atto eccezionale, perché di fatto lo e di già.
Quale conclusione può essere tratta dalla vicenda relativa alla privatizzazione delle banche ed al problema della “sistemazione definitiva” delle loro partecipazioni alla proprietà del patrimonio della Banca d’Italia? Una conclusione che, forse, chiarisce, più di quanto abbia fatto Lannutti, le cause per cui la massima istituzione bancaria nazionale ha perso il prestigio del passato e i suoi massimi organi dirigenti hanno preferito andare “a braccetto con i banchieri e con l’Abi”, anziché tutelare gli interessi degli italiani. Ciò non deve stupire; il gruppo dirigente di Via Nazionale, nel corso della Seconda Repubblica, rinunciando alla tradizionale indipendenza dell’istituzione da loro diretta, ha mostrato di aver preferito anteporre all’interesse del Paese quello dei poteri forti ad allineare l’organizzazione complessiva dell’attività creditizia italiana all’egemonia globale dei mercati finanziari. Ciò giustifica perché alle banche quotiste del capitale della Banca d’Italia si stia consentendo di irrobustire la consistenza del loro patrimonio a spese degli italiani, per poter meglio reggere la concorrenza internazionale e superare, senza molto onore, gli stress-test disposti dalla Banca Centrale Europea per la misurazione dell’efficienza e della competitività del sistema bancario europeo.

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento