Proviamo a ridefinire il concetto di sinistra?

11 Settembre 2015
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Gianni Marilotti

Da qualche tempo è in corso una querelle, per la verità piuttosto salottiera, che verte nientemeno sul seguente tema: esiste ancora una sinistra europea? Roba da far tremare le vene ai polsi e che fino a non molto tempo fa  avrebbe stimolato le più accese discussioni, promosso una valanga di pubblicazioni, convegni, etc.. Invece ci dobbiamo accontentare di qualche “approfondimento” sui media e dei diversi instant book usciti sull’argomento, che ci lasciano insoddisfatti  perché non affrontano i temi veri interessandosi più al pettegolezzo che alla sostanza del problema.
Prendiamo l’informazione quotidiana. Qualche tg e più di un quotidiano affermano che in Italia è al governo la sinistra; qualche altro -  prudentemente - parla di centrosinistra, con trattino o senza; altri ancora affermano con sicurezza che quello di Renzi è un governo centrista, esattamente neodemocristiano. I più critici parlano apertamente di un governo con una verniciatura di sinistra che attua politiche di destra. E su questo giudizio Brunetta e Landini, pur con diverse motivazioni, concordano.
Confesso che queste definizioni non mi appassionano, poiché non aggiungono nulla alla comprensione di quel che sta accadendo nella politica oggi, a tutti i livelli. Ad esempio: la sinistra europea sui temi della crisi economica mondiale, dello stallo dell’UE, dell’invasione dei migranti dall’Africa e dal Medio Oriente, degli scenari di guerra in atto o paventati, dice qualcosa di chiaro, di netto, di riconoscibile rispetto a quel che dicono i conservatori? Mario Draghi, Christine Lagarde, la Merkel, Hollande, Cameron, Renzi, Tsipras dicono cose differenti per cui si possa con sicurezza dire: quella è di destra, quell’altro di sinistra?
Di riconoscibile, e in modo inequivocabile, nell’attuale dibattito politico c’è solo quel che dicono sugli stessi temi  il Front National di Marie Le Pen, Podemos, M5 Stelle, l’Ukip, Alba Dorada, Lega Nord, Jobbik per citare i movimenti più rappresentativi del populismo moderno: basta Euro, fanculo la Troika, chiudiamo le frontiere agli immigrati, usciamo dall’UE.
Il resto fa parte del teatrino della politica italiana e delle lotte per il potere interne al PD, o con le rappresentanze  sindacali. Eclatanti lo scontro sulla riforma della scuola, o sul jobs act, perfino sulle riforme costituzionali.
E’ di sinistra dire, come fa la Camusso - che della scuola come del resto la triplice sindacale se n’è sempre fregata - che con la riforma della scuola è in pericolo la libertà di insegnamento? E’ credibile? E’ come se un politico di destra proponesse una mobilitazione popolare in Padania per bloccare l’arrivo dei Cosacchi sulle rive del Tevere. E’ vero che l’ex leader della destra italiana  fino a poco tempo fa lo diceva, ma lui non fa testo. Anche sulla riforma del lavoro verbalismi sinistrorsi hanno spesso preso il posto di ragionamenti comprensibili sulla flessibilità del mercato del lavoro in entrata e in uscita. Ciò che si vorrebbe sapere dai sindacati è se il mantenimento di posti di lavoro in imprese fuori mercato, inquinanti e da sempre sovvenzionate dallo Stato sia una buona politica di sinistra. Anche sul superamento del bicameralismo perfetto il dibattito all’interno della sinistra italiana è iniziato più di trent’anni fa con posizioni a volte ancor più radicali delle attuali proposte. Si può sicuramente discutere sul metodo messo in atto per arrivarci, così come dello sbilanciamento a favore della democrazia governante sul principio di rappresentatività, vale a dire più Governo meno Parlamento, tuttavia non mi paiono ancora questi argomenti capaci di connotare gli orizzonti di una sinistra nuova.
Marx nel Grundrisse proponeva una distinzione tra rivoluzionari, conservatori e reazionari partendo da un’analisi delle classi sociali: la borghesia, che detiene potere e proprietà dei mezzi di produzione, vuole conservare i suoi privilegi; i piccolo borghesi e la borghesia agraria, impoveriti dalle crisi cicliche sono portatori di una carica antimodernista e sono propensi  ad un ritorno al passato; il proletariato che non ha nulla da guadagnare in un ritorno al passato né nel conservare i rapporti sociali basati sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo vogliono approfittare delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche per cambiare la società.
Per quanta saggezza e lungimiranza vi sia in questa analisi, essa non è più spendibile nella realtà attuale in quanto sono cambiati gli attori sociali, i comprimari, le comparse e i mezzi con cui si produce. Negli ultimi centocinquant’anni il sistema di produzione capitalistico ha mutato più volte direzione e strategie e lo stesso proletariato appare oggi molto più variegato e composito rispetto alla metà del secolo scorso. Nel mondo del lavoro la produzione di beni immateriali ha soppiantato quella fondata sulle fabbriche e sulla produzione di beni materiali allo stesso modo che l’economia di finanza ha soppiantato lo strapotere dei grandi gruppi industriali. Siamo nell’era della comunicazione veloce, della globalizzazione, dell’interdipendenza che genera nuove ricchezze ma anche molta povertà; nuove lotte per il controllo delle risorse del pianeta i cui protagonisti non sono più soltanto gli Stati industrializzati del cosiddetto Occidente ma nuovi protagonisti a Sud come a Est del mondo. Il vecchio Continente europeo segna il passo incalzato e superato da realtà assai più dinamiche manifestando le differenze di sempre e non riuscendo a portare a compimento nemmeno quella che è stata l’invenzione politica più feconda della sua storia: la nascita di uno Stato federale, Gli Stati Uniti d’Europa. Sullo sfondo il dissolvimento di quanto costruito col processo di decolonizzazione,  in Africa, in Medio Oriente o Centro Asia, le guerre, l’esodo di intere popolazioni verso un chimerico benessere.
E’ duro dichiararsi, o sentirsi di sinistra, in un contesto nel quale non vi sono più certezze ma solo confusione e paure.
Io credo che se si vuol parlare in modo chiaro, senza ambiguità, di una politica di sinistra occorra rispondere da quattro domande fondamentali.
1)    Vogliamo finalmente dire in modo chiaro, inequivoco e - quasi – definitivo, che la globalizzazione è stata una strategia economica, di stampo neo-liberista, volta ad aggredire i mercati mondiali, producendo omologazione, standardizzazione, povertà, peggioramento delle condizioni di vita di milioni di persone?
2)    Vogliamo finalmente dire che il pensiero unico che assume i parametri della crescita, dell’innovazione volta esclusivamente ad abbattere i costi del lavoro ed aumentare la produzione e i consumi di massa nonché degli investimenti su scala mondiale e della delocalizzazione che hanno favorito la dittatura dell’economia di finanza a scapito degli aspetti più umani dei bisogni sociali, è arrivato ad un punto morto?
3)    Vogliamo finalmente dire che – storicamente – i diritti poi costituzionalizzati sono nati dalle lotte di chi ne era privo? E che non è più sopportabile sentire esponenti della classe dirigente rivendicarli per la casta? E che una sinistra mondiale che si riconosca in questa verità elementare dovrebbe assumere questa frontiera come elemento fondativo della propria azione?
4)    Vogliamo finalmente dire che l’interdipendenza è un concetto politicamente ambiguo, capace di coprire le pratiche del più spietato sfruttamento di risorse ambientali, umane e geofisiche del pianeta?
Io penso che sia su questo terreno che si misuri una politica di sinistra, realistica ed utopistica al tempo stesso, capace cioè di mantenere saldi principi etici oggi irraggiungibili e al contempo, senza salti nel buio,  di introdurre buone pratiche di futuro nelle realtà in cui opera. E mi piacerebbe sapere cosa ne pensano i vari Landini, Camusso, Cuperlo, Civati, Cofferati, Bersani, vale a dire quel variegato schieramento che si oppone al governo Renzi in nome dei valori della sinistra; naturalmente mi piacerebbe saperlo anche da quella maggioranza del PD che invece lo sostiene a spada tratta.
Il fatto che su questi temi così cruciali la sinistra abbia mantenuto e mantenga atteggiamenti ambigui, reticenti e contraddittori, non marcando decisive differenze con lo schieramento politico avverso, ha generato l’assioma qualunquista che destra e sinistra dicano e vogliano le stesse cose, distinguendosi solo per una lotta di potere e di poltrone; reticenze e ambiguità che hanno finito per alimentare atteggiamenti populistici che, da destra come da sinistra, individuano nel sistema dei partiti il nemico da abbattere.
Ora può essere vero che la forma partito come l’abbiamo conosciuta nel XX secolo non risponda più alle esigenze dell’oggi; tuttavia non è nei talk show che si forma una coscienza politica responsabile, né che si stimola la partecipazione alla vita pubblica. Occorre, come sempre, partire dal basso: dai quartieri, dai paesi, dai luoghi di lavoro o di svago; soprattutto occorre partire da un confronto vero anche con chi la pensa diversamente. E’ da qui fare emergere una classe dirigente permeabile alle sollecitazioni che provengono in modo organizzato o anche spontaneo  dalla base.
Se si accetta questo terreno di confronto io credo che sia possibile comprendere meglio le diverse posizioni o schieramenti che si vanno delineando in Italia e valutarne la corrispondenza con i compiti che abbiamo davanti per ridisegnare una politica che possa definirsi di sinistra.
Mi rendo conto che le quattro domande non esauriscono tutti i temi sul tappeto e che altre potrebbero legittimamente essere proposte; tuttavia mi pare che selezionare alcune questioni cruciali sia un buon modo per iniziare una discussione, naturalmente per chi abbia voglia di farla.

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