Quella notte che con Luigi giurammo di cambiare il mondo

25 Luglio 2015
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Andrea Pubusa

Correva l’anno 1968 ed anche a Cagliari soffiava il vento della rivolta studentesca. Anche nella facoltà di giurisprudenza, sede dei rampolli della Cagliari bene della toga e delle professioni. Anche nel tempio della conservazione spirò quel vento che spazzava muffe, ragnatele e vecchie consuetudini, ideologie conservatrici. Certo l’origine del tornado stava oltreoceano, oltre e al di qua delle Alpi, ma da noi, in viale fra Ignazio n. 17, c’era un ragazzo rosso da cima a piedi ad agitarlo e altri meno appariscenti, ma egualmente decisi. Sbancare leggi non era facile, la destra universitaria aveva sempre stravinto le elezioni studentesche e lì molti deputati del vecchio liberalismo avevano mosso i primi passi. Per il conservatorismo locale era stata ed era ancora la fucina della propria classe dirigente. Ma da lì li aveva mosso anche Lussu, il capitano dei rossomoori. C’era, dunque, da sperare. Ma mentre a lettere i compagni Clemente, Solinas ed altri già aveano issato la bandiera rossa, da noi, in viale fra Ignazio, si arrancava. Non eravamo riusciti ad andare oltre un’assemblea permanente, che però non era un’occupazione, era una via di mezzo. Nacque da un compromesso con i nostri colleghi liberali. Per loro, a differenza dei fascisti, era sacrosanto lasciarci parlare e riunire, ma, secondo il loro credo, senza impedire l’agibilità della facoltà ad altri. Fu così che un bel dì, per discutere a fondo i problemi, ci proposero una “colazione di lavoro”. Niente di particolare dissero, panini, pizzette e birroncini. La colazione di lavoro era in uso tra i politici e i nostri colleghi della destra si allenavano anche in questo a governare, i seggi in consiglio o in parlamento non sarebbero mancati. A Luigi Cogodi e a me la proposta apparve intrigante, ma non per il contenuto, sapevamo già dove volevano andare a parare loro e dove volevamo andare noi; no, l’idea era affascinante per i panini e le birrette. I rientri alla Casa dello studente, in quelle giornate frenetiche, erano poco frequenti con quel gran da fare in facoltà e un buon pasto, per di più a spese della destra ci sembrava già un modo di togliere alla borghesia qualcosa. E così, quando i birroncini erano agli sgoccioli e i panini già mangiati, giungemmo alla rottura. Nessun patto di “vertice”, avrebbe deciso l’assemblea studentesca, convocata all’indomani.
Nel collettivo studiammo la tattica. A me sarebbe andata la presidenza, in modo da controllare l’andamento dell’assemblea, a Luigi, a Jacopo Onnis, a Gianfranco Macciotta, Alberto Palmas, Fergola ed altri il compito di sfiancare gli avversari e convincere gli studenti della necessità di occupare.
Così fu deciso e così fu. A conclusione dell’assemblea, io firmai il verbale che sanciva l’occupazione della facoltà. Un fatto storico, la sinistra sfonda anche a leggi! I colleghi liberali erano irritati, ma rispettosi, i fascisti minacciarono subito di cacciarci a bastonate. Bisognava organnizzarsi. Tutti gli studenti della sinistra che potevano dovevano presidiare la facoltà quelle notti. Luigi ed io eravamo in quart’anno, già “anziani” dunque, per di più, con ruoli diversi, pilotatori, insieme agli altri compagni, di quella storica assemblea, sentivamo una responsabilità particolare. E così, mentre tutti i compagni avrebbero dormito giù, nella aule, Luigi ed io avremmo passato la notte nell’atrio, in prima linea. 
Non ci fu il tempo di organizzare il canonico prelievo di materassi dalla Casa dello studente, tutto avveniva all’improvviso, e così prendemmo due scatoloni di cartone, forse contenitori di libri forniti alla facoltà, e improvvisammo due ciacigli a fianco del portono interno nell’atrio di giurisprudenza.
Quella notte, Luigi ed io parlammo a lungo e giurammo che avremmo cambiato il mondo. Disuguaglianze, prevaricazioni, sfruttamento, autoritarismo, governo di pochi, DC, fascisti, autocrazie partitiche, tutto avremmo riposto nelle anticaglie della storia. E così, avendo davanti la vita, fecemmo tardi. I fascisi si tennero alla larga e, a n0tte quasi finita, potemmo a un certo punto concederci il meritato sonno. La giornata era stata piena, dura e faticosa, anche se entusiasmante.
All’indomani i fascisti però arrivarono e noi ci barricammo dentro, qualcuno dei nostri per protezione mise un catenaccio nel cancello esterno in ferro e mentre i fascisti volevano sfondare giunse perfino il Rettore a rimettere ordine. L’occupazione di giurisprudenza era dirompente. A lettere, covo comunista, era normale, ma in giurisprudenza era un affronto per la destra cagliaritana. Toccò a me, come presidente dell’assemblea del giorno prima, ero l’unica autorità formale, apririgli l’ingresso e prendermi una reprirnenda. Lasciare il Magnifico fuori quandomai! Ma poi lui ando vià e l’occupazione continuò.
Anche la vita. Con Luigi, da allora, ci siamo incrociati più volte. Con Emanuele Sanna, Luigi ed io,  siamo stati i tre capolista del PCI alle regionali del 1984, poi le battaglie in Consiglio, lui da assessore, io presidente della prima commissione, Emanuele Presidente del Consiglio. Fu una stagione produttiva, forse la più produttiva dell’autonomia. Dietro però c’era un partito e fior di giovani intellettuali. Due nomi per tutti. Tonino Dessì, responsabile ambiente del PCI, vi dice qualcosa sulla fonte della legislazione urbanistica di quegli anni? E Francesco Cocco a capo dell’assessorato alla cultura non vi dà l’idea di una squadra forte in ogni reparto!
Poi con Luigi ci siamo incrociati ancora quando è nata SEL, ma c’era troppo cannibalismo li dentro e io me ne sono rimasto fuori. Campo impraticabile. Lui ha continuato partecipando ai riti tribali delle sinistra in dissoluzione, ma alla fine ha mollato anche lui, divorato da quei mostri sinistri, che forse voleva combattere ma che ha finito per alimentare.
Il mondo non lo abbiamo cambiato. E’ lui che ha cambiato noi. Luigi è diventato in Sardegna un specie di capocorrente nel PCI, in Rifondazione e in SEL, mantenendo ben stretto il seggio prima di essere liquidato, io ho fatto una scelta professionale. Dunque dei nostri sogni in quel giaciglio di cartone è rimasto poco. Lui è diventato un importante dirigente regionale della sinistra in decomposizione, io un cattedratico di provincia. E il terzo della testa di lista comunista del 1984? Emanuele ha combattuto nel PD coi nuovi pescicani a difesa di un ruolo notabiliare che riteneva essergli dovuto. Al funerale ha dovuto subire in Cattedrale “l’onore” dell’omelia dell’arcivescovo. 
Morale della favola? Per cambiare il mondo occorre un’azione collettiva organizzata. Noi siamo piccole persone e da soli veniamo trascinati qua e là dagli eventi. Ecco perché il giuramento di quella notte lo abbiamo infranto, seppure in diverso modo, sia io che Luigi. Non dipendeva solo da noi onorarlo. 

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