Sette storie partigiane in sette giorni, fino al 25 aprile. Uomini e donne ricordano la lotta per la Liberazione e la loro gioventù sotto le bombe. Difesero il valore più importante: la libertà.
A cura di Alberto Abburrà, Nadia Ferrigo e Roberto Pavanello
Maria Airaudo: «Volevamo solo pane e libertà»
Maria Airaudo, nata nel 1924 a Bagnolo Piemonte, nome di battaglia Mary, racconta la sua storia lungo il sentiero che porta al Sacrario di Montoso, la “terrazza delle Alpi”, costruito negli anni Cinquanta. Ogni anno nella seconda domenica di luglio vengono ricordati i Caduti per la Libertà con una cerimonia civile e con una triplice cerimonia religiosa: cattolica, valdese ed ebraica.
«Sono entrata nella Resistenza senza conoscere l’impegno, le difficoltà che questa scelta comportava. Con incoscienza della giovane età, ma con una volontà unica: la pace». Grazie al lasciapassare tedesco, da presentare alle pattuglie con la carta d’identità e la dichiarazione del cotonificio Mazzonis di Pralafera, per cui Maria era incaricata di cercare alimenti, si poteva muovere liberamente e portare i messaggi, sempre in bicicletta, percorrendo decine di chilometri di saliscendi ogni giorno. «Mai un portato con me un documento di carta. Tenevo tutti i messaggi a memoria». Il momento più difficile è lo stesso in cui Maria ha deciso di unirsi alla Resistenza. «Il 30 dicembre 1943, tredici persone vennero uccise dai nazisti, senza nessun motivo se non quello di intimorire la popolazione - ricorda -. Le salme erano abbandonate per strada, martoriate dai cani, così con la mia amica Maria Bosio provai a metterle nelle casse. Riuscimmo solo con uno, era appena un ragazzo. Non riuscii più a continuare».
Con la collaborazione di: Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, Centro studi “Beppe Fenoglio”, ANPI sezione di Alba
Intervista di Nadia Ferrigo, video di Mauro Ottaviani e Raffaele Posa
Ezio Montalenti: «Senza onestà, non c’è democrazia»
Ezio Montalenti, classe 1931, aveva appena 14 anni quando iniziò a militare nella Resistenza. Cresciuto in una famiglia laica e anti-fascista, imparò seguì ben presto le orme del padre entrando a far parte il 20 luglio nel 1944 del Fronte della gioventù, il movimento studentesco fondato e guidato da Eugenio Curiel, membro della direzione del Partito Comunista. «Iniziai portando manifesti, volantini, e giornali clandestini - racconta -. La mia casa mia era diventata una tipografia clandestina, il compito di noi ragazzi era portare documenti e distribuire Unità, Avanti, il Pioniere. C’era sempre il pericolo di essere fucilati o deportati in un campo di concentramento». Lui riuscì sempre a cavarsela, ma non tutti i suoi compagni ebbero la stessa fortuna. «Di una mia ragazza, nome di battaglia Rosanna, perdemmo le tracce. Mancò un appuntamento, poi non ne abbiamo saputo più nulla». Sposato da 56 anni, una figlia e due nipoti, dopo una carriera da dirigente che l’ha portato in giro per l’Italia ora è il presidente dell’Anpi di Torino e coordinatore dell’Anpi del Piemonte. «La base della democrazia? Senza dubbio, l’onestà».
Con la collaborazione di: Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, Centro studi “Beppe Fenoglio”, ANPI sezione di Alba
Intervista di Nadia Ferrigo, video di Mauro Ottaviani e Raffaele Posa
Elio Pereno: «Tra i tedeschi e chi si ribellava, la scelta fu doverosa»
Elio Pereno compirà l’8 maggio 89 anni. Festeggerà ad Avigliana, nelle stessa casa in cui è cresciuto e dalla quale uscì, appena diciottenne, per unirsi alla banda Fassino, guidata dal ventunenne Eugenio (futuro papà di Piero) e dare il suo contributo alla guerra di Liberazione. Con il nome di battaglia Yoyo, fu membro della 41ª Brigata Carlo Carli in Val Sangone.
«Essendo nato nel 1926 - racconta -, avevo ricevuto un’educazione fascista, ma quando è stato il momento di scegliere tra andare soldato con i tedeschi e unirmi a chi si ribellava, la scelta è stata doverosa». Grazie all’interessamento di un prete di Avigliana, Elio a altri amici ottennero un permesso di lavoro conseguente all’impiego alla Todt (impresa di costruzioni tedesca che impiegava manodopera coatta). Ciò li salvò dai rastrellamenti e favorì la loro attività partigiana.
Nella vita «borghese» ha lavorato in fabbrica e proseguito il suo impegno a favore della Resistenza come presidente dell’Anpi di Avigliana, ma anche come cantante. Come cantante, sì, interprete delle canzoni della lotta partigiana in Val Susa, con le quali ha anche un cd. Collezionista di documenti e cimeli della Resistenza, ma anche dell’era fascista, ha un archivio degno di un museo. Non smette di trasmettere ai giovani la sua passione per la libertà.
Con la collaborazione di: Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, Centro studi “Beppe Fenoglio”, ANPI sezione di Alba
Intervista di Roberto Pavanello , video di Mauro Ottaviani e Raffaele Posa
Felice Marino: «Finita la guerra, ci siamo tirati su le maniche e abbiamo lavorato»
Un partigiano nelle Langhe. A 70 anni dalla Liberazione entrare a Cossano Belbo e chiedere di Felice Marino è come fare un salto indietro nel tempo. Qui, in un paese di mille anime tra le colline cuneesi che hanno ispirato Fenoglio, a 40 minuti di auto da Alba, ogni strada, ponte, cascina è un pezzo di storia e di memoria. Qui sono nate le prime formazioni che si opponeva al nazifascismo. Ed è qui che la Resistenza vanta ancora un testimone con un volto e un nome, anzi due nomi. Perché Felice Marino, a 92 anni compiuti, è prima di tutto il partigiano Felix. Ne aveva 20 quando è stato inviato sul Brennero con gli Alpini. Ma la sua esperienza da soldato è durata poco: «Volevano portarci in Germania, siamo scappati». Una volta a casa con un alcuni amici fonda un gruppo, primo esperimento di quella che sarebbe diventata la Seconda Compagnia della Brigata Belbo della Seconda Divisione Langhe. Il resto è storia di una guerra. Battaglie, rastrellamenti, imboscate, tradimenti, fucilazioni, morti. Tanti morti. «E’ stato brutto» ripete. I suoi occhi però si illuminano quando racconta la liberazione di Alba e i 23 giorni: «La gente poteva uscire di casa». Poi la guerra è finita e non c’è stato nemmeno il tempo per festeggiare: «Siamo tornati a lavorare subito». A metà degli Anni ’50 ha acquistato un vecchio mulino e avviato un’azienda che oggi coinvolge anche i 2 figli e i 3 nipoti. Producono 30 tipi di farine ed esportano in tutto il mondo. La migliore rivincita su chi voleva rubargli il futuro.
Con la collaborazione di: Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, Centro studi “Beppe Fenoglio”, ANPI sezione di Alba
Intervista di Alberto Abburrà, video di Mauro Ottaviani e Raffaele Posa
Gianluigi Gabetti: «Nella difesa della libertà la differenza tra generazioni si annulla»
«Non sono mai stato, neanche lontanamente, un eroe. Non bisogna perdere la memoria nel rispetto di chi, a differenza del sottoscritto, ha dato prove coraggiose, fino al sacrificio estremo. Ed è nella difesa del valore supremo, la libertà, che la differenza tra le nostre generazioni si annulla». Gianluigi Gabetti, prima presidente della “Olivetti Corporation of America” e dal 1971 a fianco di Gianni Agnelli, nacque a Torino il 29 agosto del 1924. Nel settembre del 1943 venne convocato dal generale Karl Wolff, che gli chiesi di unirsi al suo comando: giovane studente di giurisprudenza, aveva studiato tedesco e gli fu chiesto di aiutare i nazisti nei rapporti con la città. Così con il fratello Roberto, i genitori e i nonni fuggì a Magliano Alfieri, e di lì a poco decise di unirsi ai partigiani, con il nome di battaglia Attilio.
«Nel viaggio con i miei compagni da Alba a Torino, che doveva ancora essere liberata, spuntò improvvisamente una colonna di mastodontici carri armati tedeschi. Ci raggelammo – racconta -. Tirarono su una bandierina bianca. Il comandante si ricordò che io conoscevo il tedesco, così andai solo fin sotto al carro armato. Il tedesco disse che voleva solo sapere se il ponte era minato. Girarono subito la torretta su di noi, con le mitragliatrici puntate. Ci avviammo per primi lungo la spalletta del ponte. Così, se fosse esploso, saremmo morti al posto loro».
Con la collaborazione dell’ Archivio nazionale cinematografico della Resistenza
Intervista di Nadia Ferrigo, video di Mauro Ottaviani e Raffaele Posa
Teresina Bruno: «Sono solo stata una donna coraggiosa»
Di sé dice «Sono solo stata una donna coraggiosa» e non lo dice ricordando i suoi giorni da staffetta partigiana, poco più che bambina, ma lo dice per essere stata la prima camionista italiana, subito dopo la guerra. Teresina Bruno, vispa nonnina di Settimo Torinese, il 9 aprile ha compito 86 anni e per le sue imprese di «donna coraggiosa» è stata anche premiata, nel 2010, dal Presidente Giorgio Napolitano. E il fatto che sia e sia stata una donna eccezionale non ci sono dubbi: da quando a 14-15 anni portava con la bici viveri e armi ai partigiani (tra loro i suoi due fratelli), a quando indossando i pantaloni, nonostante il disappunto della mamma, guidava il camion a 21 anni, lei così minuta.
Oggi racconta ai bimbi e ai ragazzi le sue avventure da staffetta partigiana (Lampo Topolino il suo «nome di battaglia»), nonna sorridente capace di conquistare l’attenzione anche dei più piccoli. Si commuove solo nel ricordare quando la madre si parò davanti a lei per difenderla da un soldato tedesco nel cortile di casa: «Uccidi me, lascia stare lei». Le salvò un prete, don Luigi Paviolo. L’abbiamo riportata nel luogo in cui furono impiccati sei giovani l’otto agosto del ’44. Era la prima volta che tornava in quel luogo, ma ciò che vide non lo ha mai dimenticato.
Teresina non ha mai smesso di essere donna coraggiosa e narratrice degli orrori della guerra. Sempre col sorriso.
Con la collaborazione dell’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza
Intervista di Roberto Pavanello, video di Mauro Ottaviani e Raffaele Posa
Cesare Alvazzi Del Frate: «La libertà va difesa tutti i giorni»
Cesare Alvazzi Del Frate è nato a Oulx, montagne torinesi, l’11 luglio 1926. Il suo nome da partigiano è Cesarino ed ha combattuto in Val di Susa e in Val Chisone come comandante del Distaccamento della XLI Divisione Val Chisone Brigata Assietta. Amico della famiglia Gobetti ha iniziato la sua attività antifascista andando a cancellare le scritte e i simboli del Fascio dai muri. Era il 25 luglio 1943. «Una scritta sola è rimasta e si può ancora leggere oggi - racconta -. “Vincere!”. E io sono d’accordo: perché per noi anche se allora non era così, quella scritta vuol dire vincere l’oppressione, vincere l’oblio, la pigrizia, vincere il nostri istinto di andare con la corrente senza pensare a dove stiamo andando». La sua lotta partigiana ha preso il via pochi mesi dopo, il 2 novembre, e come incarico aveva quello di cercare armi. Ed è proprio trafficando con un detonatore che ha rischiato di perdere la vita, quando la bomba gli è esplosa tra le mani. Era a 2 mila metri d’altezza. Ha perso un pezzo di dito e danneggiato un altro, ma ce l’ha fatta. Ha ripreso la lotta ed è ancora qui con noi a raccontarci la Resistenza. Dopo la guerra è stato direttore delle Ceat Cavi, oggi racconta ai ragazzi cosa significa essere partigiano.
2 commenti
1 Gaetano Paolo Agnini
7 Giugno 2017 - 23:49
Belle le vostre pagine! Vorrei invitarvi a percorrere l’Itinerario storico sui luoghi della RSI a Desenzano. La “repubblica” non era a Salò come viene banalizzata, ma aveva strutture, quali (io li definisco così) i “due poli del male” a Desenzano: (1) l’Alto comando delle SS per l’Italia con il Gen.Wolff e (2) l’Ispettorato della razza con il Ministro Preziosi.
L’Itinerario che raggiunge il Bosco della Memoria è inserito nel circuito mondiale “Gardens of the Righteous Worldwide”.
G.P.Agnini Tel.328.8731039
2 Gaetano Paolo Agnini
7 Giugno 2017 - 23:50
Grazie.
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