L’Italia può tornare alla “periferia” del mondo?

16 Luglio 2015
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Gianfranco Sabattini

Nel corso dei secoli l’Italia è stata, in momenti diversi, l’economia più ricca e fiorente del mondo; dopo Roma e dopo il decadimento seguito al suo crollo, verso la fine del primo millennio, le città italiane hanno contribuito al risveglio dell’Europa intera e ad una nuova fase di crescita dell’intera penisola italica. Il Tardo Medioevo ha visto l’Europa proiettata verso la conquista del mondo, con i Paesi dell’Europa atlantica che, celebrando la rivoluzione scientifica, la nascita dell’illuminismo e la rivoluzione industriale, hanno concorso a creare le premesse del mondo moderno; mentre l’Italia, invece, dopo i fasti del Rinascimento è caduta, all’inizio del Seicento, in una nuova fase di declino che l’ha trascinata verso la periferia del mondo, dove si troverà alla vigilia dell’unificazione. Così, Emanuele Felice, storico economico, nel suo ultimo libro “Ascesa e declino. Storia economica d’Italia”, rappresenta sinteticamente lo schema della storia del Paese.
Considerato che l’Italia del Rinascimento, secondo Felice, “è ancora la più avanzata economia del mondo”, perché nel Sei e Settecento si differenzia in termini tanto marcati dal resto dei Paesi dell’Europa occidentale? Felice, abbandonando le spiegazioni tradizionali basate su fattori di ordine esterno, fonda la sua risposta su fattori d’ordine interno, quali la “precocità dello sviluppo economico”, la formazione di profonde disuguaglianze e il ruolo negativo delle istituzioni politiche delle molte realtà statuali (le Signorie) che affollavano il suolo italico e di quelle economiche, rappresentate soprattutto dalle corporazioni di mestiere. Gli effetti concatenati di questi fattori, secondo Felice, sono all’origine, oltre che dei differenziali sul piano istituzionale, sociale ed economico delle diverse realtà statuali, trasformatisi, successivamente, nei divari regionali dell’Italia unita, della crisi che ha allontanato l’Italia dai processi che hanno determinato le sorti dei Paesi atlantici.
Nel Cinquecento – sottolinea Felice – la produzione agricola ha faticato a soddisfare la domanda che proveniva dalla crescita della popolazione, perché priva del supporto di un adeguato sistema economico che andasse ben al di là dei limiti asfittici di quelli delle singole realtà statuali in cui la penisola italica era suddivisa. Ciò ha determinato il rincaro dei prezzi delle derrate alimentari e con esso l’aumento della redditività della terra; fatto, questo, che ha determinato una crescita degli investimenti fondiari, a scapito di quelli manifatturieri. Il diffondersi della rendita fondiaria ha concorso all’approfondimento delle disuguaglianze distributive che, a sua volta, si è riflesso negativamente sulle attività extragricole. I processi di ruralizzazione delle Signorie hanno condotto i ceti borghesi formatisi nell’età comunale a cedere il passo all’aristocrazia terriera, che ha privilegiato il sorgere di società essenzialmente conservatrici, favorite anche dal prevalere delle rigide corporazioni di mestiere, totalmente conformate alla staticità delle società signorili.
La concatenazione degli eventi illustrati, se visti ed analizzati nella prospettiva descritta, rende inevitabile – secondo Felice – la considerazione che il Risorgimento e la creazione dello stato-nazione italiano siano da ritenersi un’”ingegnosa risposta politica” che i ceti dirigenti più illuminati esistenti hanno saputo dare alle sfide della modernizzazione provenienti dalla Rivoluzione francese e da quella industriale inglese. Porsi il problema della crescita dell’economia italiana a partire dall’Unità, ha quindi per Felice un senso, perché “prima l’Italia non esisteva come entità politica, ma anche perché è da allora che il nostro Paese si pone nelle condizioni di poter partecipare alla ‘corsa’ […] tra le grandi nazioni”. La storia economica dell’Italia moderna inizia proprio a partire dall’Unità compiuta tra il 1861 e il 1870, anche se il decollo sulla via della crescita e dello sviluppo del nuovo Stato non è stato immediato e ostacolato non poco il suo ingresso nel novero delle grandi potenze.
Dopo aver raggiunto l’Unità, l’Italia era priva di una base industriale e caratterizzata da profondi squilibri di ordine sociale, economico e culturale; ciononostante, il nuovo Stato è riuscito ad avviare nei decenni successivi un processo di industrializzazione e di modernizzazione che ha consentito, nell’arco di un secolo, di fare diventare l’Italia una delle “maggiori potenze capitalistiche del mondo”. Lungo questo percorso non sono mancate crisi e difficoltà, ma sino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, gran parte degli italiani hanno potuto godere di un crescente livello di benessere, verificatosi soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale.
L’Italia sconfitta, con gran parte del suo sistema produttivo distrutto, rinnova la propria classe dirigente e la propria organizzazione statuale, inserendosi all’interno di un ristrutturato assetto dell’economia internazionale, quindi aprendosi al commercio internazionale (in ciò sorretta dal proliferare di programmi di cooperazione tra gli Stati ad economia di mercato); condizioni, queste, che consentiranno al Paese di vivere l’esperienza di una crescita e di uno sviluppo intensi per tutto l’arco di tempo dei “trent’anni gloriosi” (1945-1975). Con il sopraggiungere della crisi petrolifera, hanno preso il sopravvento una struttura produttiva formata da “attività leggere e tradizionali”, a basso consumo energetico; ma, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso “i vincoli internazionali – afferma Felice – e le condizioni di competitività si fanno più stringenti: l’Italia perde quei vantaggi di sistema […] che avevano permesso alle sue piccole imprese di prosperare”; la perdita di tali vantaggi si tenterà di compensarla con l’organizzazione delle piccoli imprese in distretti industriali. Tuttavia, non doveva passare molto tempo perché la visione esaltante del “piccolo è bello” entrasse in crisi, anche a causa dell’approfondirsi della globalizzazione, che comportava una perdita di competitività sui mercati internazionali per tutte le attività produttive di piccola dimensione.
In tal modo, dopo la fine dei “gloriosi trent’anni”, l’Italia ha visto incepparsi il suo motore originario di crescita, cessando, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, di crescere secondo i ritmi coi quali crescevano gli altri Paesi sviluppati; ciò ha causato una diminuzione del livello di benessere dei suoi cittadini, l’aumento del tasso di povertà assoluta e relativa, l’amplificazione ed il consolidamento dei problemi irrisolti di natura istituzionale, economica e sociale e il peggioramento del divario tra le regioni del Nord e quelle del Sud. L’Italia di oggi, afferma Felice, è un Paese arenato sulle secche di una lunga stagnazione economica e per cercare di capire come sia possibile un suo disincagliamento occorre riflettere su quale potrà essere il ruolo futuro della classe politica nazionale.
La classe politica è responsabile delle scelte destinate ad incidere sulle chance future che si offrono al presente all’Italia; la sua natura e i suoi obiettivi, pur originando dalle condizioni istituzionali, sociali ed economiche esistenti del Paese, sono influenzate dal contesto internazionale del quale il Paese stesso è parte. Per riuscire ad affrontare i problemi più immediati, la classe politica attuale deve essere, secondo Felice, onesta, lungimirante e competente, per liberarsi dal discredito che da tempo grava su di essa. A questo scopo, sempre secondo Felice, occorrerà che essa rimuova la macchinosa architettura politico-istituzionale che sinora è valsa ad “imbrigliare” l’azione di governo, tanto da rendere impossibile l’attuazione di qualunque decisione che non fosse preventivamente condivisa dalla quasi totalità delle forze politiche e sociali presenti nel Paese, facendo affidamento sulle opportunità che possono essere tratte dalla sua integrazione nel contesto dell’Unione Europea.
A meno di voler abbandonare la costruzione europea – conclude Felice – per tornare a una piena sovranità nazionale occorrerà saper mettere la costruzione dell’Unione “in condizioni di funzionare, con modalità pienamente democratiche e rappresentative, sino a fare delle sue istituzioni la fucina di una nuova cittadinanza cosmopolita”. Questa è la sfida più importante che gli italiani possono contribuire a vincere: “E’ una sfida di enorme complessità, che richiede lungimiranza e competenza […]. Su di essa si giocano le future possibilità di benessere per l’Italia”.
Anche Felice, perciò, è del parere, come molti altri osservatori e critici dell’attuale situazione dell’Italia, che l’Unione Europea costituisca l’unica garanzia contro un declino irreversibile; tuttavia, ammesso anche che l’unione politica europea possa essere raggiunta in tempi brevi, la responsabilità primaria del ricupero dal lento riflusso verso la periferia del mondo del Paese ricadrà principalmente sulla classe politica nazionale; questa, infatti, saprà essere un valido interlocutore a livello europeo solo se riuscirà a realizzare preventivamente un’unità coesa di tutti gli italiani, non più afflitti da divisioni laceranti, come invece è accaduto a causa di una memoria storica non condivisa, soprattutto dacché l’Italia si è arenata sulle secche della stagnazione iniziata alla fine del secolo scorso.

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