ll debito come “servitù” e “colpa”

15 Luglio 2015
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Gianfranco Sabattini

Il caso della Grecia ha provocato un revival di memorie classiche sulle differenze esistenti tra le culture dei popoli mediterranei e quelli dell’Europa del Nord; differenze, queste, che avrebbero segnato uno scarto storico-culturale che, secondo Silvia Ronchey, esperta di cultura classica, (“’Debito’ uguale ‘colpa’, quella parola unica che separa i tedeschi dal mondo greco”, in “la Repubblica” dell’8 luglio u.s.) è arrivato sino ad oggi, segnando in profondità la psiche dei singoli popoli e determinando un conflitto culturale latente “sull’antinomia profonda connessa alla concezione del debito”.
Secondo la Ronchey, il sostantivo tedesco “Schuld” designa insieme il debito e la colpa; il duplice significato del sostantivo tedesco sarebbe entrato nella cultura dell’Occidente per via del fatto che il fondamento etico del capitalismo (il sistema di organizzazione della vita materiale più diffuso del mondo contemporaneo, del quale il concetto di debito è parte essenziale) originerebbe, secondo la nota tesi di Max Weber, dall’etica protestante, connessa alla concezione calvinista della grazia e del peccato e secolarizzatasi successivamente in ideologia profana. Quest’ultima, nonostante le difficoltà riscontrate nei tentativi di giustificarla sul piano teorico, è stata la causa, assieme ai successi materiali conseguiti dal modo di produzione capitalistico, dell’introiezione nella psicologica individuale delle implicazioni comportamentali riconducibili a quella concezione della grazia e del peccato.
“Se in tedesco – afferma la Ronchey – i concetti di debito e colpa si stringono in uno stesso nodo lessicale, la lingua greca, che sta all’origine del nostro pensiero e della nostra sintassi filosofica, distingue nettamente tra l’una e l’altra. Nel greco antico, come ancora oggi nel greco moderno, debito si dice chreos”: un sostantivo che designa “ciò che serve” e il legame che esso instaura tra debitore e creditore è “una comunità di destino” e non una posizione di colpa del primo nei confronti del secondo che non ammette una sua espiazione, anche se si trova in difficoltà esistenziali, se non dopo aver pagato il debito. Pena, la dannazione eterna.
La narrazione della Ronchey ripropone le idee avanzate dall’antropologo anarchico americano David Graeber (“Debito, I primi 5.000 anni”); notoriamente, questi mostra come l’istituzione del debito sia anteriore alla moneta e come, da sempre, sia oggetto di aspri conflitti sociali. Nell’antichità i sovrani dovevano periodicamente rimediare alla riduzione in schiavitù per debiti di ampie fasce della popolazione, per evitare l’implosione di tutta la società. Da allora, la nozione di debito, secondo Graeber, si è estesa alla religione, come “explicandum” della libertà e dell’asservimento degli uomini.
Perché si chiede l’antropologo americano ci si è convinti che i debiti devono essere saldati? Perché questa idea è intesa tanto come una proposizione economica, quanto come un giudizio morale? Perché rimettere i debiti ai propri debitori è un comportamento misurabile in termini di montanti, saldi, penalità e saggi d’interesse? Per rispondere alle domande, secondo Graeber, non basta riconoscere che il debito e l’asservimento di chi non restituisce il dovuto sono tra loro connessi, bensì occorre capire come la forma peculiare dell’asservimento del debitore si trasformi in schiavitù.
Il modo più frequente ed efficace di rendere schiavi gli uomini, secondo Graeber, consiste nel renderli debitori. Chi ha bisogno di un prestito, per ottenerlo deve impegnarsi a restituirlo maggiorato dell’interesse, e se si trova nella necessità di dover chiedere un altro prestito, deve anche accollarsi condizioni peggiori per fronteggiare il debito precedente. Pertanto, la ragione economica essenziale per indebitare gli uomini e conservarli schiavi sta nel metterli nella condizione di non poter pagare il loro debito e di spingerli ad entrare in una spirale perversa che li porterà a non appartenere più a se stessi: a diventare schiavi dei creditori. Sarebbe questa la prospettiva cui ricondurre, per un verso, l’interpretazione dell’inerzia dell’Unione Europea sulla via dell’unificazione politica e, per un altro verso, la comprensione dell’iniziativa più conveniente che la Grecia dovrebbe prendere, per evitare l’abbandono dell’eurozona; ciò, non solo nell’interesse dei greci, ma anche nell’interesse di chi ancora crede nell’Unione Europea come “comunità di destino” dei popoli che la compongono, e non esclusivamente come “mercato unico”, come l’intendono “Germania e compagni”.
Per quanto possa essere tacciata di estremismo, l’analisi di Graeber risulta suggestiva, non solo perché apre i cuori della maggioranza degli europei alla speranza di vedere aiutato un Paese in difficoltà, ma anche perché, come suggerisce Slavoj Zizek, filosofo e psicanalista sloveno, in un articolo apparso su la Repubblica del 9 luglio (“L’eresia di Syriza può salvare l’Europa della solidarietà egualitaria”), le potenze dell’UE che “appoggiano lo status quo tecnocratico che da decenni mantiene l’Europa in uno stato di inerzia” possono essere sconfitte e tener viva l’idea dell’unione politica, a patto che si crei “nel suo corpo principale una frattura settaria”; ciò perché “solo una nuova ‘eresia’ (rappresenta in questo momento da Syriza) può salvare quello che vale la pena di salvare dei valori europei: la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà egualitaria…”. Tale evento, secondo Zizec, è ciò che l’Europa dei tecnocrati maggiormente teme, perché Syriza rappresenta una reale minaccia all’attuale governance dell’UE da parte delle sue principali potenze economiche; quindi – afferma Zizek - c’è dell’ipocrisia nelle richieste continue di austerità rivolte alla Grecia. L’intento dei tecnocrati europei è quello di tenere la Grecia in uno stato di sudditanza continua, accusando il governo di Syriza di non mostrare sufficiente senso di colpa e di sentirsi innocente. “E’ questo che disturba l’establishment UE; il governo di Syriza riconosce il debito, ma senza colpa”; se questa fosse rimossa, i tecnocrati, guardiani degli interessi dei creditori, non avrebbero più la possibilità di gestire, come sinora hanno fatto, le sorti dei popoli europei fuori da ogni controllo democratico.
Per sconfiggere i tecnocrati occorre l’”eresia” della quale parla Zizek e della quale dovrebbe essere portatore Tsipras al tavolo dei futuri negoziati, per ottenere gli aiuti necessari al suo Paese; a tal fine, il premier greco dovrebbe essere il protagonista di una “scelta strategica”, con cui chiedere che si ponga fine alla richiesta di crescenti misure d’austerità, perché l’Europa si apra definitivamente alla necessità di cambiare radicalmente il modo in cui i Paesi oligarchi pretendono di esercitare la solidarietà. Sarebbe questa, secondo Zizec, la via per far compiere un sicuro “scatto” in avanti al processo di unificazione politica dell’Europa e, in questo senso, il referendum e la vittoria del “no” rappresenterebbero un “primo passo in questa direzione”; pare invece che Tzipras sia disposto a cadere di nuovo nella trappola delle trattative tecniche, che serviranno solo a dilazionare ulteriormente lo stato di dipendenza della Grecia dai tecnocrati dell’UE.
La conclusione del filosofo sloveno riecheggia la “Preghiera” recitata sull’Acropoli rivolta ad Atene di Ernest Renan sul finire del XIX secolo, ricordata da Silvia Ronchey in un altro articolo comparso su “la Repubblica” del 2 luglio (“Tutto per il popolo, così l’antica Grecia creò il paradosso della democrazia”); secondo la Ronchey, l’omaggio che Renan formulava contro i “nordici colonizzatori” esprimeva un appello, la cui eco può essere riproposta ancora oggi contro i governanti dell’Europa nordica: “resistere allo scetticismo, ai calcoli e alle abitudini oligarchiche; non dubitare del popolo, dei non possidenti, non paventare il potere che abdica a favore di quell’antica e temibile espressione del kratos popolare che è lo strumento referendario”.
E’ così! Nel perseguire la “comunanza di destino”, che con i Trattati europei i nostri Padri hanno inteso di lasciarci in eredità, non serve la presunta validità del calcolo egoistico del capitalismo, che, come molti grandi scienziati sociali, da Karl Marx a Joseph Alois Schunpeter, hanno sempre sostenuto la sua indimostrabilità teorica sul piano etico. La “comunanza di destino”, in altri termini la solidarietà tra i popoli, non è perseguibile sulla base di puri calcoli di convenienza di uno o più degli Stati coinvolti nel processo comunitario; la sua realizzazione implica, al contrario, valutazioni politiche, liberate il più possibile dalle ristrette valutazioni plutocratiche e tecnocratiche, quali quelle che i “nordici colonizzatori” vogliono far valere a tutti i costi ai danni della Grecia e di chi è a rischio di cadere nel baratro ellenico.

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