Con la riforma Renzi la scuola va al mercato

10 Luglio 2015
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Piero Bevilacqua da Il Manifesto 

Affari privati. Il preside manager dissolve, per ora simbolicamente, la natura pubblica, egualitaria della formazione. E nasconde la mancanza di fondi con la distribuzione di qualche mancia.
Ecco un commento, apparso su Il Manifesto qualche tempo fa, sulla legge sulla scuola, approvata ieri in via definitiva alla Camera.
 

Non sono state certo poche le cri­ti­che mosse al ddl sulla scuola appro­vato dal Con­si­glio dei mini­stri il 12 marzo scorso [ora legge, dopo il voto della Camera di ieri - n.d.r.], anche da parte di com­men­ta­tori pronti ad acco­gliere con favore le “riforme” del governo. Merita tut­ta­via qual­che ulte­riore con­si­de­ra­zione l’innovazione più sin­go­lare del pro­getto gover­na­tivo: la chia­mata diretta dei docenti da parte del preside-manager, cui si attri­bui­sce anche la gestione di premi e incen­tivi ( vere e pro­prie bri­ciole per pochis­simi) da elar­gire ai pro­fes­sori più meritevoli.
E’ fin troppo evi­dente che tanta discre­zio­na­lità nelle mani di un capo, sia pure accom­pa­gnato da una “squa­dra” di docenti, darebbe luogo ad arbi­tri, pra­ti­che clien­te­lari, cor­ru­zione. Men­tre si tra­sfor­me­reb­bero gli isti­tuti sco­la­stici in luo­ghi di ten­sione e con­flitti, con la lace­ra­zione del corpo docente, non senza risvolti e code giu­di­zia­rie, come ha paven­tato qual­che com­men­ta­tore. ( Il pre­side dell’Istituto Tec­nico Avo­ga­dro di Torino Cor­riere della Sera, 14 marzo).
Di sicuro, in pochi anni la scuola per­de­rebbe quel po’ di con­cor­dia interna che ha fatto ope­rare per decenni inse­gnanti e stu­denti come un col­let­tivo di lavoro. Un clima di coo­pe­ra­zione reso pos­si­bile dalla imper­so­na­lità delle norme, fon­date sul merito, che ha sele­zio­nato i docenti della scuola ita­liana sino a oggi: pub­blici con­corsi, abi­li­ta­zioni, corsi di aggior­na­mento, ecc . È evi­dente che l’idea del pre­side che chiama all’insegnamento e distri­bui­sce qual­che man­cia serve anche a coprire la maga­gna che tutti conoscono:la con­di­zione di asso­luta indi­genza in cui sono lasciati da decenni gli inse­gnanti della scuola ita­liana. Gio­ca­tore delle tre carte, Renzi si fa pub­bli­cità come rifor­ma­tore e inno­va­tore, ma nasconde quel che è dram­ma­ti­ca­mente neces­sa­rio alla scuola ita­liana per farla risor­gere: inve­stire risorse e soprat­tutto por­tare a un livello di dignità euro­pea gli sti­pendi dei professori.
L’idea del preside-capo si pre­sta tut­ta­via a con­si­de­ra­zioni più gene­rali. Non deve sfug­gire che anche nel campo della scuola si mani­fe­sta l’ossessione di Renzi per il comando. Lo si vede nei suoi rap­porti col Par­la­mento e con i com­pa­gni del suo par­tito, lo si è visto con il Jobs act, che dà all’imprenditore la libertà di licen­ziare, ora nella riforma elet­to­rale in discus­sione, che dovrebbe for­nire il nome del vin­ci­tore alla chiu­sura delle elezioni.
Non è solo un dato carat­te­riale del pre­si­dente del Con­si­glio. L’evidente incre­mento di tratti auto­ri­tari nelle società di più o meno antica demo­cra­zia è il risvolto ine­vi­ta­bile di un assog­get­ta­mento cre­scente del ceto poli­tico alle pres­sioni dei poteri economico-finanziari. Se i corpi inter­medi, le isti­tu­zioni, le case­matte che hanno rego­lato i rap­porti tra i cit­ta­dini e tra que­sti e il potere, in una società com­plessa, sono rap­pre­sen­tati come osta­coli al libero mer­cato, alla fine que­sta società si può tenere insieme solo tra­mite cen­tri di comando asso­luti. Ma la scuola è un ter­reno deli­cato e par­ti­co­lare. L’enfasi che il ddl mette sulla figura del pre­side e sull’autonomia sco­la­stica dovrebbe susci­tare serie pre­oc­cu­pa­zioni per altre ragioni. Si va infatti verso la dis­so­lu­zione di quella strut­tura pub­blica che rego­lava la vita sco­la­stica, con mec­ca­ni­smi imper­so­nali di accesso all’insegnamento e si simula, per affer­marla poi di fatto, una pri­va­tiz­za­zione degli isti­tuti. Non è più lo stato, in rap­pre­sen­tanza di tutti noi, che comanda, ma il pre­side, a sua discrezione.
Il rap­porto tra inse­gnanti e pre­side non è più una rela­zione tra col­le­ghi, ma un affare pri­vato tra un capo-azienda e i suoi sot­to­po­sti. Tale dis­sol­vi­mento per il momento sim­bo­lico della scuola pub­blica nasconde un altro ele­mento che scar­dina assetti sto­rici con­so­li­dati: la sem­pre più spinta auto­no­miz­za­zione dei cur­ri­cula sco­la­stici. Ogni scuola per­se­guirà il pro­prio modello e il pro­prio pro­gramma di studi. Ma la scuola ita­liana ha avuto, tra gli altri meriti, quello di for­nire agli ita­liani, emer­genti da una seco­lare sto­ria di loca­li­smi, di dif­fe­ren­zia­zioni regio­nali, di diver­sità lin­gui­sti­che, un comune fondo cul­tu­rale, il minimo indi­spen­sa­bile di iden­tità nazio­nale. Vogliamo che la scuola abban­doni tale com­pito? Bene, il pre­si­dente del Con­si­glio e le buro­cra­zie mini­ste­riali devono dirci dove vogliono andare, a che scopo si fanno que­ste “riforme”, qual è il modello di società che essi inten­dono perseguire.
Io credo di sapere in realtà dove vogliono andare, non per capa­cità divi­na­to­rie, ma per­ché da anni i governi inter­ven­gono sulla scuola e si pos­sono ben scor­gere quali sono le loro inten­zio­na­lità rifor­ma­trici. Quel che osses­siona infatti i rifor­ma­tori è l’efficienza della mac­china isti­tu­zio­nale, senza nes­suna pre­oc­cu­pa­zione della qua­lità dei saperi, del livello della for­ma­zione che viene for­nita ai ragazzi. E que­sto per una ragione ben pre­cisa. Tutta la visione pro­get­tuale del legi­sla­tore si esau­ri­sce in un ben misero intento: ade­guare la scuola alle esi­genze mute­voli del mer­cato del lavoro. E allora occorre porre il que­sito: dob­biamo inno­vare la scuola in tale dire­zione, immet­tere sem­pre più diret­ta­mente anche le isti­tu­zioni del sapere e della for­ma­zione nel tri­ta­carne del mer­cato? Que­sta domanda è utile per­ché mette di fronte a due strade che non sem­pre sono distin­gui­bili nel dibat­tito cor­rente, ma che occorre avere ben chiare se si vuole ela­bo­rare un pro­getto di scuola all’altezza delle sfide che ci si parano innanzi.
Vogliamo una scuola che aiuti la for­ma­zione di una società nuova, più giu­sta e avan­zata, che rie­la­bori per il nostro tempo un nuovo assetto di civiltà, o cer­chiamo di farla fun­zio­nare al meglio per rispon­dere ai biso­gni pre­senti e imme­diati della società così com’è, con le sue gerar­chie e squi­li­bri? Nel primo caso è evi­dente che non basta più, alla scuola ita­liana, l’affermazione tra i ragazzi di una coscienza nazio­nale. Oggi occor­re­rebbe for­nire una più larga visione euro­pea e mon­diale. Uno dei com­piti del rifor­ma­tore dovrebbe essere quello di intro­durre ele­menti di cono­scenza cosmo­po­lita nella for­ma­zione dei nostri stu­denti, che non pos­sono certo esau­rirsi nell’apprendimento della lin­gua inglese. Pre­pa­rare i nuovi cit­ta­dini del mondo, ecco uno dei com­piti da asse­gnare alla scuola del nostro tempo, men­tre intorno a noi si scon­trano sto­rie e civiltà, ribol­lono guerre san­gui­nose dipen­denti da ingiu­sti­zie e soprusi, incom­pren­sioni e igno­ranza. E per tale asse for­ma­tivo i saperi uma­ni­stici sono irrinunciabili.
Ma oltre a quello civile e storico-politico c’è un campo cono­sci­tivo di prima gran­dezza di cui la scuola dovrebbe occu­parsi: il campo delle scienze, soprat­tutto di quelle della natura e del modo di inse­gnarle. E’ un nodo deci­sivo per la for­ma­zione cul­tu­rale dei nostri ragazzi. Non solo e non tanto per­ché un appren­di­mento di buon livello delle scienze assi­cura poi una supe­riore capa­cità del lavoro pro­fes­sio­nale che cia­scuno andrà a svolgere.
Ma soprat­tutto per­ché oggi un inse­gna­mento inter­di­sci­pli­nare dei saperi scien­ti­fici appare deci­sivo per for­mare i gio­vani alla let­tura della com­ples­sità del mondo. Un mondo sem­pre più inter­re­lato che stiamo distrug­gendo per l’ igno­ranza dei più, oltre che per l’interesse egoi­stico dei pochi. L’attuale for­ma­zione scien­ti­fica dei nostri ragazzi è ina­de­guata rispetto ai dram­ma­tici pro­blemi che stiamo creando alla casa comune del pia­neta. Men­tre della scienza si esalta super­fi­cial­mente l’aspetto tec­no­lo­gico, quello che serve al mer­cato del lavoro, alla “cre­scita”.
Eppure si dimen­tica che per­fino la disci­plina da cui dipende quasi tutto delle con­qui­ste tec­no­lo­gi­che del nostro tempo, la fisica, costringe oggi a una visone inter­re­lata della natura: «Ancora una volta il mondo sem­bra essere rela­zione, prima che oggetti» (C.Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adel­phi). Nella nuova scuola la cono­scenza scien­ti­fica dovrebbe fare acqui­sire ai gio­vani un nuovo sapere scientifico-morale: l’idea di un rap­porto uomo-natura meno arcaica di quello dei loro padri.

 

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