Uguaglianza formale e sostanziale: problema irrisolto del liberalismo

3 Luglio 2015
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Gianfranco Sabattini
“Storia del pensiero liberale”, di Giuseppe Bedeschi, storico della filosofia, è un bel libro, nel quale è puntualmente narrata l’evoluzione del pensiero liberale sulla base degli apporti ad essa recati da alcuni tra i principali pensatori di filosofia sociale e politica europeied americani, succedutisi dalla fine del Settecento sino ai nostri giorni. Ciò che appare poco convincente, e un po’ deludente, dell’esposizione di Bedeschi sono le conclusioni, riguardanti l’ineluttabilità che la distinzione-opposizione tra “eguaglianza formale” e “uguaglianza sostanziale” sia destinata a conservarsi, al di là dei limitati interventi riparatori, in tutta la sua “durezza”; ciò perché il suo affievolimento sconta una opposizione critica di natura ideologica che lo considera incompatibile col valore della libertà assegnatale dal liberalismo; si tratta di conclusioni che Bedeschi tenta di supportate con le “viete” considerazioni del confronto-dibattito politico contemporaneo che, per ragioni di opportunismo, non tengono conto che l’attenuazione della distinzione-opposizione, attraverso una limitazione della libertà, costituisce la condizione “sine qua non” per la riproposizione del liberalismo nel mondo moderno.
Dal punto di vista giuridico-politico, il liberalismo è la costruzione di un apparato formale che afferma come lo Stato, costituito per volontà dei componenti di una data comunità, possa essere limitato nei suoi poteri per la difesa dei diritti naturali di chi consensualmente ne ha consentito la costituzione. Questa ha una base giusnaturalistica, in quanto fondata sull’assunto “che esiste una legge naturale precedente e superiore allo Stato e che questa legge attribuisce diritti soggettivi, inalienabili, agli individui singoli prima del sorgere di ogni società e quindi anche dello Stato”; poiché lo Stato è un prodotto dell’uomo, il liberalismo ha una doppia natura: oltre che giusnaturalistica, riguardo ai diritti da tutelare (libertà di pensiero, di religione, diritto di proprietà, libertà di intrapresa economica, ecc.), essa è anche contrattualistica riguardo alle modalità con cui lo Stato deve tutelare quei diritti.
Le fondamenta giusnaturalistiche e contrattualistiche del liberalismo, delle quali John Locke è stato il grande formalizzatore, è stata criticata di David Hume, secondo cui la dimensione contrattualistica è smentita sia sul piano storico, che su quello della presunta razionalità degli uomini: sul piano storico, perché quasi tutti gli Stati sono sorti originariamente mediante atti di conquista o di usurpazione, senza alcuna volontaria adesione da parte di chi ne ha subito gli esiti; sul piano della presunta razionalità, perché la malvagità della natura umana è di natura tale da rendere irrealistico l’assunto che gli individui, nell’intessere i loro reciproci rapporti, siano disposti a gestirli conservando la pace e l’ordine sociale. Malgrado le diverse posizioni riguardo alle fondamenta complessive del liberalismo, molti studiosi hanno però affermato che Locke e Hume sono pervenuti alle stesse conclusioni, in quanto le argomentazione dei due filosofi hanno avuto come obiettivo la costruzione di uno Stato inteso come presidio di una società libera.
Per il liberalismo, la società libera, concepita per la tutela dei diritti naturali e presociali dei soggetti che la compongono, è una società rigorosamente individualistica, nel senso che lo Stato, posto a presidio dei diritti, non è altro dai soggetti che lo compongono, ma solo la somma delle loro volontà; da ciò consegue che senza individualismo, contrapposto a qualunque forma di organicismo, non può esservi liberalismo. Si tratta, afferma Bedeschi, mutuando l’espressione da Norberto Bobbio, di una vera e propria “rivoluzione copernicana” sul piano del pe3nsiero giuridico-politico, in base alla quale il problema dello Stato è stato possibile considerarlo essenzialmente dalla parte del potere degli individui; fatto, questo, che ha portato all’elaborazione delle modalità organizzative dello Stato liberale, perché, dopo la sua costituzione, non potesse diventare dispotico. L’organizzazione dello Stato fondata sulla divisione e sul bilanciamento dei poteri, della quale è espressione paradigmatica “L’esprit des lois” di Montesquieu, ha costituito l’alternativa liberale all’organizzazione dello Stato dispotico, con cui lo stesso Stato era considerato dalla parte del potere sovrano e non dalla parte del potere degli individui.
La preoccupazione liberale di tutelare i diritti naturali e la libertà degli individui, osserva Bedeschi, ha trovato la sua espressione più sottile nel contributo di Benjamin Constant, maturata sotto l’influenza degli esiti della Rivoluzione francese. La Rivoluzione del 1789 ha diviso i pensatori liberali: alcuni l’hanno condannata nel modo più fermo, mentre altri l’hanno approvata “nei suoi primi atti” e condannata per le sue deviazioni giacobine e terroristiche. Constant rientra nel novero dei primi, dato che egli l’ha approvata sino al 1791, in quanto ha rinvenuto in essa “la svolta decisiva della storia del mondo moderno”, ma l’ha condannata per i suoi atti successivi, in quanto li ha valutati non come la continuazione delle Rivoluzione, ma come una sua negazione. La Rivoluzione – osserva Bedeschi - non è stata negata neppure dai liberali “dottrinari” della Restaurazione, ma l’accettazione da parte loro delle principali conquiste del 1789 non ha comportato anche l’accettazione del principio della sovranità popolare; ciò ha impedito “una soluzione politica delle massime tensioni sociali” che covavano nella società francese post-rivoluzionaria. Le tensioni provocheranno i grandi “scoppi rivoluzionari” delle prima metà del XIX secolo; la non accettazione del principio della sovranità popolare è stato, secondo Bedeschi, il limite principale dei “dottrinari”, che darà la stura alle critiche sempre più profonde, rivolte contro il liberalismo nei decenni successivi.
Una di queste critiche è stata quella che ha imputato al liberalismo di “aver espresso gli interessi delle classi e dei gruppi sociali che detenevano la ricchezza, e di aver concepito la proprietà privata come il diritto per eccellenza, al quale avrebbe subordinato tutti gli altri e per la tutela del quale avrebbe congegnato tutto il sistema politico”. La giustificazione in termini naturalistici e presociali della proprietà è stata rifiutata da Constant; egli ha considerato un errore averla assunta come antecedente alla società o indipendente da essa; la proprietà, secondo Constant, non era da considerarsi anteriore alla società, perché era questa che le dava garanzia e valore: la proprietà esisteva perché esisteva la società e quindi la sua origine era da considerarsi di natura convenzionale, con l’implicazione che essa aveva valore solo se fosse stata considerata in funzione della società, delle sue esigenze e dei suoi bisogni.
Dopo le critiche di Constant, la proprietà privata ha cessato, dunque, di rivestire il ruolo centrale che le era stato assegnato nel primo liberalismo; tuttavia, essa ha continuato ad avere per i liberali un’importanza decisiva ai fini della conservazione della libertà, sebbene abbiano dovuto riconoscere che la libertà poteva essere fatta salva solo se la proprietà fosse stata abbastanza diffusa, sicché le scelte di ogni individuo non potessero essere condizionate dalle scelte di altri; di qui l’opzione del liberalismo per il frazionamento della ricchezza e la sua contendibilità attraverso la concorrenza. Ciò perché è solo là dove è resa possibile la sperimentazione di un gran numero di modi alternativi di impiegare la ricchezza che si può ottenere lo sviluppo delle capacità individuali, consentendo, tra l’altro, attraverso una progressiva selezione, un miglioramento continuo delle condizioni di vita, culturali e materiali di tutti i componenti del sistema sociale.
Tuttavia, la ferma difesa della selezione e della concorrenza, per i liberali, ha sempre comportato la necessità di ridurre al minimo i poteri e le funzioni dello Stato; poteri e funzioni che sono aumentati, da un lato, man mano che è cresciuta la complessità della società e dell’organizzazione dello Stato, e dall’altro, via via che si è elevato il livello di democratizzazione dello Stato stesso. La conseguenza di tutto ciò ha fatto sì che liberalismo e democrazia procedessero congiuntamente; il che non è stato però privo di conseguenze. I due concetti evocavano aspirazioni diverse, che hanno dato luogo a crescenti conflitti sul terreno strettamente politico. Con l’aumento del livello democratico delle società moderne, sono aumentate parallelamente le aspirazioni all’uguaglianza sociale, e il loro accoglimento ha rivelato che, per il liberalismo, la libertà e l’eguaglianza sono “valori antitetici”, nel senso che la piena garanzia della libertà comporta il sacrificio dell’eguaglianza. Il rapporto tra libertà e condizione sociale, pertanto, è divenuto, al culmine della rivoluzione industriale, tormentato e conflittuale. Nel corso di questo conflitto si è affermata la distinzione tra libertà politica e libertà sociale, per sottolineare che lo Stato liberale poteva assicurare la prima, ma non la seconda; per l’accoglimento delle opposte istanze di cui erano portatrici occorreva pertanto un nuovo liberalismo che assicurasse tanto la prima che la seconda.
Il conflitto tra libertà politica e libertà sociale ha originato un processo evolutivo che ha portato il liberalismo ad accogliere le pretese dei movimenti democratici, culminato negli anni Trenta con la formulazione di un nuovo liberalismo che, sul piano economico, ha condotto alla teorizzazione del neoliberismo, riconducibile ad una nuova formulazione del liberalismo, distaccata da quella classica e maggiormente “aperta” al sociale ed ad un controllo dell’evoluzione dei mercati da parte dello Stato. E’, questo, quanto è accaduto in occasione della svolgimento di un celebre “Colloquio” svoltosi a Parigi alla fine degli anni Trenta, al quale ha partecipato il fior fiore dei liberali dell’epoca: Walter Lippmann, Wilhelm Röpke, Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises, Raymond Aron ed altri ancora.
Al Colloquio parigino non risulta abbia partecipato il filosofo liberale americano John Dewey, il quale, sempre negli anni Trenta e sotto la diretta influenza degli esiti della Grande Depressione (1929-1932), aveva affrontato anticipatamente e autonomamente il tema del Colloquio, per arrivare però a ben altre conclusioni; egli, infatti, pur collocandosi, secondo la valutazione di Bedeschi, al limite del pensiero che si richiamava ai valori del liberalismo delle origini, affermava che un liberalismo riformato doveva “mirare a realizzare un’organizzazione sociale che mettesse sotto controllo l’industria e la finanza, affinché servissero alla liberazione economica e culturale degli uomini”. Del carattere liberale del liberalismo di Dewey, afferma Bedeschi, è lecito dubitare; così com’è lecito dubitare, si può aggiungere, che le osservazioni critiche del filosofo americano implicassero necessariamente la realizzazione di un’”economia socializzata”.
Sta di fatto, comunque, che a partire dagli anni Trenta si è sempre più affermata in un numero crescente di liberali la distinzione-opposizione fra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale e la necessità, per correggere gli esiti negativi di un’incontrollata eguaglianza formale, che quella sostanziale fosse considerata ben più importante di quella formale, in quanto la sola, quella sostanziale, che potesse dare all’eguaglianza formale “senso e sostanza”. L’affermata superiorità dell’eguaglianza sostanziale è stata la conseguenza, secondo Bedeschi, di una “posizione ideologica assolutamente incompatibile con il liberalismo”. Ciò perché, l’accettazione di questa preminenza implica un’eccessiva restrizione della libertà; ma senza la piena libertà civile e politica non può esservi neppure giustizia sociale, in considerazione del fatto che questa non può che essere “sempre il risultato di una dialettica politica in cui devono avere libero gioco i partiti, i sindacati, i movimenti di opinione, ecc”.
Tuttavia, secondo Bedeschi, ben pochi liberali contestano oggi la validità delle politiche interventiste, che hanno assunto la forma più compiuta con la realizzazione del welfare State; ma permangono delle differenze sostanziali tra liberali e interventisti circa i modi e le forme con cui il welfare State è attuato: “Il liberale pone la cornice, traccia i limiti dell’operare economico”, mentre il socialista-riformista “indica ed ordina le maniere dell’operare”; in conseguenza di ciò il dirigismo del socialista riformista sarebbe “insomma di sostanza”, mentre quello liberale sarebbe “di cornice”. Meraviglia che un saggio, per molti aspetti esemplare come quello di Bedeschi sulla storia del liberalismo si concluda quasi in modo banale: esso manca infatti, di riconoscere che la ricerca della dimensione della libertà compatibile con una dimensione dell’eguaglianza sostanziale condivisa è la condizione sine qua non, come sta a dimostrare la necessità di superare la crisi ancora in atto in gran parte dei Paesi ad economia avanzata, per salvare lo stesso liberalismo dagli esiti catastrofici della dittatura estrema dei mercati finanziari.

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