Gianfranco Sabattini
Il diritto alla casa, come diritto sociale, risulta di incerta collocazione nel sistema costituzionale italiano; anch’esso, in ogni caso, subordinato alla condizionalità delle scelte politiche ed alle disponibilità finanziarie e, dunque, esposto, come afferma Miriam Allena in “Il social housing: posizioni giuridiche soggettive e forme di tutela tra ordinamento nazionale ed europeo” (Diritto Pubblico, n. 1/2014), alla “tendenziale sacrificabilità a fronte dell’esigenza di contenere la spesa pubblica”. Peraltro, la scarsità di risorse ha determinato che per l’attuazione delle politiche pubbliche volte a soddisfare il diritto alla casa fossero per lo più utilizzate modalità tali da consentire “di trasferire, almeno parzialmente, il costo della realizzazione delle abitazioni sociali sugli operatori privati dando loro, in contropartita, una serie di benefici e di agevolazioni nella realizzazione di immobili da immettere sul mercato”.
Nella costituzione italiana, il diritto alla casa non è sancito in modo espresso; a questo deficit ha provveduto, però, l’Unione Europea, statuendo il diritto nella “Carta Sociale Europea”, adottata a Torino nel 1961, assunta dal Consiglio d’Europa come strumento a tutela dei diritti umani, complementare alla “Convenzione europea dei diritti dell’uomo”.
La Carta è stata incorporata nell’ordinamento italiano a seguito della ratifica avvenuta con le legge n. 30/1999, per cui il diritto all’abitazione ha assunto un significato precettivo chiaro e definito; in altri termini, come afferma la Allena, il contenuto sostanziale del diritto alla casa è divenuto, con la ratifica, “del tutto idoneo a conformare le politiche pubbliche in modo di realizzare, sia pure gradualmente, l’accesso di tutti cittadini, indipendentemente dalla loro condizione economica di base, a un‘abitazione”.
L’evoluzione del diritto alla casa, come diritto sociale, è riflesso quasi puntualmente nell’evoluzione delle politiche abitative attuate in Italia dall’inizio del secolo scorso sino ai nostri giorni. Tale diritto ha incominciato ad essere riconosciuto a partire dalla legge Luzzatti del 1903, che ha attribuito ai comuni la facoltà di garantire l’abitazione per i bisognosi. Successivamente, la soddisfazione del diritto ha assunto forme organizzative statuali crescenti e variabili in tutto l’arco degli anni del secolo scorso. Sebbene la Costituzione non stabilisca un diritto all’abitazione, dalla riflessione sulle condizioni minime necessarie per una convivenza civile è emerso il riconoscimento che l’esigenza della casa presenta i connotati di un bisogno sociale, cui il welfare sinora realizzto ha dovuto dare soddisfazione, nei limiti dei cosiddetti “diritti” sociali finanziariamente condizionati.
Originariamente, il diritto alla casa non veniva soddisfatto con interventi diretti, ma solo attraverso la regolazione dei processi affidati a diversi soggetti istituzionali (Casse di risparmio, Opere pie, Monti di pietà, ecc.), autorizzati a concedere prestiti alle società cooperative volte a sopperire alla domanda di abitazioni popolari. Solo a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso lo Stato ha assunto un ruolo più incisivo, anche se sempre indiretto, prevedendo istituti autonomi per la formazione e la gestione del patrimonio abitativo pubblico, quali l’INA-Casa (istituto di assicurazioni) e la GESCAL (Gestione case lavoratori). I finanziamenti sono stati assicurati, in parte sotto forma di prelievo fiscale a carico dei contribuenti, in parte dai lavoratori dipendenti (pubblici e privati) ed in parte dai datori di lavoro. A partire dagli anni Settanta, dopo le proteste popolari della fine degli anni Sessanta, l’organizzazione dell’edilizia residenziale pubblica ha trovato nel Ministero dei lavori pubblici e nel CER (Comitato Edilizia Residenziale) la struttura di coordinamento relativa alle varie tipologie d’intervento, con lo Stato trasformato da regolatore in finanziatore.
La riorganizzazione dell’intervento pubblico nella soddisfazione del diritto alla casa ha incluso il consolidamento degli IACP (Istituti Autonomi Case Popolari), quali enti pubblici periferici operativi del Ministero, poi trasferiti dal 1977 alle Regioni. La carenza finanziaria per sopperire adeguatamente alla domanda degli aventi diritto ha indotto lo Stato a ricercare una serie di contrappesi utili al potenziamento dell’intervento diretto, stabilendo dapprima una disciplina regolativa con l’equo canone delle locazioni e, successivamente, dopo la liberalizzazione dei canoni abitativi, prevedendo un contributo pubblico sull’affitto per i cittadini più bisognosi costretti alla locazione privata.
Si è trattato di modeste misure tampone che non hanno inciso efficacemente sulla soluzione del problema abitativo, lasciandolo sostanzialmente irrisolto; tali sono stati il trasferimento via legge ordinaria, nel 1977, delle funzioni per l’edilizia pubblica abitativa alle Regioni e il conferimento, nel 2001, alle stesse Regioni dei poteri esclusivi in materia di Edilizia Residenziale Pubblica a seguito della modifica del titolo V della Costituzione. Infatti, se, da un lato, la modifica costituzionale è valsa a costituzionalizzare il “livello essenziale delle prestazioni in fatto di diritto alla casa, dall’altro lato, ha lasciato aperti tutti i problemi relativi ai finanziamenti, nonché alla esigibilità delle prestazioni da parte dei cittadini in tutto il territorio nazionale”.
Negli anni recenti, vi è stato l’approvazione del D.L. 112/2008, che ha previsto all’articolo 11 la realizzazione di un “Piano Casa”, rivolto all’incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo attraverso l’offerta di alloggi di edilizia residenziale da realizzare con il coinvolgimento di capitali pubblici e privati, destinati prioritariamente alle categorie sociali svantaggiate; ciò ha portato a parlare di “Social Housing” (Edilizia Privata Sociale) e dell’opportunità di programmare e di facilitare l’attuazione di un modello per l’edilizia pubblica parallelo rispetto alla tradizionale “Edilizia Residenziale pubblica”.
Con il D.L. n. 47/2014, convertito in legge nel maggio dello stesso anno, il Piano Casa è stato definitivamente approvato; esso contiene tra l’altro misure urgenti per l’emergenza abitativa, nella prospettiva del Social Housing, al fine di perseguire tre fondamentali obiettivi: il sostegno all’affitto a canone concordato; l’ampliamento dell’offerta di alloggi popolari; lo sviluppo dell’edilizia residenziale sociale
Il Piano nazionale di edilizia abitativa prevede il coinvolgimento di capitali pubblici e privati per la realizzazione di abitazioni residenziali attraverso la costruzione di nuove abitazioni e/o la valorizzazione dell’esistente; pertanto, esso persegue le seguenti finalità: il miglioramento dell’integrazione sociale e della convivenza umana; il perseguimento dell’efficienza produttiva nel settore edilizio abitativo, affinché la qualità delle costruzioni nuove e di quelle ristrutturate sia la più elevata possibile; la disponibilità di un’offerta flessibile, in grado di rispondere rapidamente ad un aumento della domanda di abitazioni; la coniugazione della sostenibilità sociale delle politiche per la casa con quella economica; il conseguimento di un punto di svolta nella “questione casa” e di una maggior equità nella distribuzione degli alloggi sociali.
La Commissione Europea ha dichiarato che l’”housing exclusion” – ovvero l’essere privi di una casa dignitosa – è una delle manifestazioni più serie della povertà e dell’esclusione sociale nella società moderna. La casa ha infatti un ruolo fondamentale nel raggiungimento del benessere individuale e familiare delle persone poiché è l’ambito nel quale trova risposta un’ampia gamma di bisogni primari di tipo economico e sociale.
Sebbene il diritto all’abitazione sia stato ricondotto al novero dei diritti tutelati dalla Costituzione, la sua soddisfazione, al pari di quella di tutti gli altri diritti sociali, risentirà però dei limiti propri delle scelte politiche. Ciò per due ragioni: innanzitutto per la mancanza di indici adeguati circa la definizione dei livelli minimi essenziali di soddisfazione e per la mancata disponibilità di strumenti quantitativi adeguati a monitorare e misurare i risultati conseguiti; in secondo luogo, per i limiti dell’attuale organizzazione del welfare State, il cui prevalente finanziamento attraverso la leva fiscale ha raggiunto livelli non ulteriormente valicabili.
Nell’attesa che siano resi disponibili strumenti idonei, sia per stabilire i livelli minimi di soddisfazione dei diritti sociali, che degli strumenti per la misura del modo in cui essa è stata realizzata, resta tuttavia la constatazione del fatto (meritevole di riflessione, in particolare per quanti ancora vorrebbero l’Italia fuori dall’Unione Europea) che il diritto alla casa ha potuto affermarsi come diritto sociale, costituzionalmente rilevante, soprattutto per merito dell’Europa.
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