La supremazia del dollaro e l’atteso crollo dell’impero USA

12 Giugno 2015
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Gianfranco Sabattini

Accade di frequente che i corrispondenti dagli USA di alcuni giornali italiani, in particolare Rampini e Zucconi di “la Repubblica”, annuncino il progressivo declino dell’impero americano; quasi ubbidendo ad una sorta di “wishful thinking”, sulla scorta dei “rumors” politici nascenti dal confronto tra i principali leader dei due maggiori partiti americani, ipotizzino di continuo la fine o il ridimensionamento del dominio nel mondo da parte del Paese a stelle e strisce. Le loro cronache, però, mancano di interpretare correttamente il senso del dibattito politico interno e, quel che è più grave, non colgono le ragioni per cui la supremazia americana è destinata a durare ed i motivi per cui il mondo ha ragione di preoccuparsi della dinamica delle forme con cui il potere connesso a quella supremazia tende ad essere esercitato.

Un aiuto per capire perché gli Usa continueranno a conservare, per un tempo destinato a durare, la loro supremazia politica, economica e militare su scala mondiale è offerto da un recente articolo (“Il dollaro, l’altro pilastro della supremazia americana”) che Germano Dottori, docente ed esperto di studi strategici, ha pubblicato sul n. 4/2005 di “Limes”. Secondo questo esperto, gli USA continueranno ad esercitare la supremazia, utilizzando la loro moneta per “socializzare”, ovvero per fare pagare ad altri le proprie spese militari e per finanziare e tenere efficiente il pilastro sul quale si regge la tenuta, l’ordine e la sicurezza dell’area valutaria del dollaro.

La socializzazione delle spese militari – afferma Dottori - è resa possibile dalla “relazione circolare che lega tra loro lo status del dollaro sui mercati mondiali, la supremazia militare americana e la potenza geopolitica degli Stati Uniti. E’ la supremazia globale delle armi statunitensi, infatti, a fare della divisa americana il rifugio sicuro del risparmio planetario, rendendo il dollaro e gli asset denominati nel biglietto verde un investimento prudente ogni qual volta una crisi di maggiori proporzioni si profili all’orizzonte”.

Con la forza della loro moneta, gli USA hanno “dollarizzato” l’economia internazionale, grazie alla circostanza che, militarmente superiori, possono sanzionare qualsiasi Paese o gruppo di soggetti, negando l’accesso all’area valutaria del dollaro per fruire dei servizi finanziari che l’area può offrire. Con questo particolare potere gli Stati Uniti si sono assicurati, e continuano ad assicurarsi, il “privilegio esorbitante” di “poter acquisire ovunque qualsiasi bene in cambio della propria moneta e, fatto ancora più importante, la possibilità di indebitarsi sul piano interno e internazionale nella certezza di poter determinare, unilateralmente, le ragioni di scambio al momento del rimborso”.

Tale stato di cose si è consolidato durante le fasi finali della Guerra fredda, ma ha raggiunto il massimo della sua efficacia dopo il crollo dell’URSS, regolando l’andamento del valore del dollaro con gli accordi del Plaza del 1985 e con quelli del Louvre del 1987: i primi, stipulati con i Paesi costituenti l’allora G5 (Francia, Giappone, Gran Bretagna, Repubblica federale tedesca, Stati Uniti), hanno consentito agli USA di perseguire l’obiettivo di contrastare il persistente apprezzamento del dollaro, attraverso interventi coordinati sul mercato dei cambi; i secondi accordi, stipulati con gli stessi Paesi che avevano sottoscritto i primi, con l’aggiunta del Canada, hanno consentito agli USA di perseguire il raggiungimento dell’obiettivo opposto, quello di arrestare il deprezzamento del dollaro, particolarmente rispetto allo yen e al marco tedesco. Secondo Dottori, è stato “grazie a questo incontrastato potere di signoraggio internazionale – l’aggiudicazione da parte del debitore sovrano americano della differenza di valore tra il titolo emesso e quello saldato - che Ronald Reagan riuscì a innescare negli Stati Uniti la ripresa impetuosa che avrebbe affiancato i costosi investimenti militari, rendendo irrisorio il peso sui contribuenti”. Con la corsa agli armamenti inaugurata da Reagan non hanno potuto competere, per motivi diversi, sia la Russia che la Cina, le due superpotenze più direttamente concorrenti e antagoniste degli USA.

Il potere di signoraggio ha così garantito agli USA un’efficace “polizza di assicurazione” contro ogni pericolo di declino geopolitico, in quanto le superpotenze alternative e antagoniste non hanno potuto accollarsi i costi con la stessa facilità consentita agli americani; ciò perché, Russia e Cina, non hanno potuto imporre ai loro cittadini sacrifici superiori a quelli mediamente imposti al cittadino americano, a causa della maggior rapidità con cui, all’interno delle superpotenze alternative e antagoniste degli USA, era raggiunta la soglia al di là della quale le spese militari avrebbero perso “la loro legittimità”, determinando il crollo del consenso dei cittadini nei confronti del decisore politico che ne avesse promosso l’aumento.

Per via dell’esercizio del suo “privilegio esorbitante” sul piano monetario, gli Usa, a differenza dei più diretti concorrenti sul piano geopolitco, hanno potuto, in tal modo, finanziare il debito pubblico e i deficit correnti del Tesoro, con l’emissione di una moneta accettata in tutto il modo come mezzo di pagamento e di conservazione del valore; fatto, questo, che ha consentito, e continua a consentire, al governo statunitense di fissare di momento in momento il mix di politiche fiscali e monetarie valutate più convenienti, in funzione della percezione dei rischi e delle opportunità avvertite dall’amministrazione americana nell’esercizio della leadership mondiale. In queste condizioni, nelle scelte di politica monetaria interna, il governo americano ha potuto così limitarsi a operazioni di “tapering”, o semplicemente di “fine tuning” (tutte operazioni di semplice aggiustamento), con cui ha costantemente conformato le misure di politica monetaria alla dinamica del ciclo economico; ciò ha consentito di evitare che le crisi mondiali potessero indebolire il dollaro, rendendo fondata la previsione che, nonostante l’attuale fase di instabilità dell’economia mondiale, la moneta a stelle e strisce potesse sopravvivere e rinforzarsi, permettendo all’America di conservare ancora per un periodo futuro, del quale non è dato prevedere la fine, il proprio primato politico, economico e militare nel mondo.

La prosecuzione di questo primato non è immune da ombre e da pericoli, non solo per gli USA stessi, ma anche e soprattutto per il resto del mondo; ciò perché, sebbene potenti, gli USA sono esposti al pericolo dim indebolirsi, a causa della crescente forza che vanno accumulando le lobby interne: è questa la tesi che Lucio Caracciolo illustra nell’articolo, comparso su “la Repubblica” del 7 maggio col titolo “L’irreversibile declino dell’Impero americano”. Il tono e il senso dell’articolo è diverso da quello dei corrispondenti esteri dei quali si è detto in precedenza. Il potere delle lobby, secondo Carcciolo, nonostante i tentativi di regolamentarlo, sta diventando incontrollabile e minaccia “di rendere le istituzioni largamente disfunzionali. E di facilitare l’intrusione di interessi esterni […] nel motore a stelle e strisce, per limitarne e deviarne la potenza”, col pericolo che il mondo intero, privo della “pax americana”, diventi più ingovernabile di quanto già ora non lo sia. Ma quele chance ha il mondo per evitare che il prevalere delle lobby americane porti il mondo a ridosso del “ciglio del non ritorno”?

A ben considerare, il pericolo sarebbe evitato se alcune delle potenze minori decidessero di rinunciare al ruolo di emissari subalterni agli USA, accollandosi l’onere di favorire la trasformazione della natura dell’attuale area valutaria monocentrica egemonizzata dal dollaro, in area pluricentrica, imperniata sull’adozione di un “canestro di monete” composto dalle valute dei Paesi economicamente più importanti.

Sarebbe necessario che le corrispondenze dall’estero, sempre propense ad annunciare l’imminente crollo dell’egemonia statunitense, incominciassero ad indicare ai loro lettori quali sono le potenze minori che, soprattutto in questo momento, prediligono la subalternità all’America, anziché l’assunzione dell’impegno a favorire un’evoluzione delle istituzioni economiche mondiali perché siano rese meno gravide di pericoli; i corrispondenti esteri non dovrebbero trovare eccessive difficoltà nell’individuazione di alcune di queste potenze, reali o presunte che siano, anche perché alcune di esse sono potenze europee, come ad esempio la Germania di Angela Merkel e, in una veste minore, la Francia di François Hollande. Questi due importanti attori dell’Unione Europea, nonostante le loro reiterate invettive pronunciate contro le pretese della “superpuissance”, recentemente non hanno esitato a recarsi da Putin che, svogliatamente, come sembra potersi evincere dalle foto diffuse dell’incontro, è stato a sentirli sulle condizioni delle quali erano latori per indurlo a rispettasse l’autonomia e l’indipendenza degli Stati nati dopo la disintegrazione dell’URSS; giusto per salvaguardare i dogmi della globalizzazione e, dunque, i dogmi propri del neoliberismo reaganiano, esprimenti il contenuto della politica internazionale degli Stati Uniti, inficiati, come afferma Caracciolo, dalla crescente manomissione delle lobby private. E dire che Germania e Francia dovrebbero essere i corifei dei futuri Stati Uniti d’Europa, per accorgerci invece che il loro obiettivo è, non l’Unione politica europea, ma la sola unione economia dei Paesi membri, totalmente conformata ad una globalizzazione dollarizzata.

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