Gianna Lai
Incontro degli studenti del Meucci con Nino Garau, Comandante partigiano Geppe, organizzato dall’Anpi e dallo Spi-Cgil, nell’ambito del Percorso sulla Memoria, ‘La Shoah e la persecuzione nazifascista nell’Europa della Seconda guerra mondiale’.
‘Sono 35.828 i partigiani caduti, 21.168 i mutilati e gli invalidi. 9.980 i civili uccisi per rappresaglia in Italia, 32mila i resistenti caduti all’estero, Grecia, Albania, Iugoslavia, Francia. 16.176 i militari morti nei campi di concentramento tedeschi, per non aver aderito a Salò, 10mila i soldati caduti combattendo a fianco degli Alleati’. Così si rivolge Nino Garau, agli studenti del Professionale Meucci, riuniti nell’Aula Magna dell’Istituto, per definire precisamente la condizione dell’Italia e dell’Europa durante la Resistenza e la Seconda guerra mondiale.
L’originalità dell’iniziativa sta, rispetto alle altre già prese in altre scuole, nel fatto che gli studenti hanno visto prima dell’incontro con Nino Garau il Dvd sulla sua storia, la storia del Comandante partigiano Geppe. Così quando Francesco Bachis, dell’Università di Cagliari, introduce in modo approfondito l’argomento e racconta come è nato quel filmato, chi insieme a lui ci ha lavorato e perchè continui a suscitare tutto quell’interesse, i ragazzi possono porre le prime domande a Nino, che vuole riassumere però in poche righe, prima delle domande stesse, il senso di tutta la vicenda. ‘Solo piccoli nuclei di sabotatori e disturbatori avrebbero voluto che agissero in Italia gli angloamericani, invece nacquero vere e proprie formazioni partigiane, che determinarono l’esito della guerra, ponendo le basi dell’Italia democratica e repubblicana. E fu esplicitamente riconosciuto dagli americani il contributo della lotta partigiana, primo fra tutti nel Rapporto conclusivo del Capo ufficio informazioni e organizzazione: ‘Vittoria alleata rapida, schiacciante e poco dispendiosa, grazie alla presenza dei partigiani‘.
Le domande degli studenti, Daniele, Nicola, Gianluca, Roberto, Sidney
D. La giovinezza spesa per salvare l’Italia, per assicurare il futuro dell’Italia: come vi sentivate di fronte a questa importante responsabilità? Come inizia la sua esperienza?
R. Dopo l’8 settembre, sparito l’esercito e spariti gli ufficiali dell’Accademia dell’Aereonautica, che io allora frequentavo, mi trovai sbandato insieme agli altri militari. Un compagno di Forlì mi invitò a seguirlo nella sua città, ‘tanto non tarderanno ad arrivare gli aerei americani nella base di Forlì‘. Non arrivarono, nè io, considerato disertore dagli occupanti, potevo mettere a repentaglio la famiglia, che sarebbe stata fucilata dai nazifascisti se mi avessero trovato lì. Raggiunsi i miei zii di Modena, antifascisti e, per questo, costretti a fuggire in campagna dopo l’Armistizio. Il padrone del mulino che si trovava in quei pressi mi chiese un giorno ‘e tu che farai?‘, dissi ‘vorrei rientrare a casa a Cagliari, ma so di non poterlo fare‘. Mi invitò allora ad una riunione di oppositori, ‘siamo contro il regime del Comando tedesco, contro la Repubblica di Salò, ci mettiamo a combattere anche se siamo in pochi‘. A Spilamberto, nella Quinta zona modenese, in contatto con tutte le formazioni antifasciste, diressi appena ventunenne un gruppo imponente di 270 combattenti tra partigiani e patrioti, che si allargò man mano, fino a contare la presenza di oltre 500 persone prima della liberazione. Perchè ogni gruppo di ragazzi si appoggiava alla popolazione del territorio, che forniva protezione, cibo e informazioni necessarie a conoscere i movimenti dei nazifascisti, i posti di blocco, i pericoli di una zona di guerra. Essendo Brigata di pianura noi lavoravamo di notte, oppure organizzavamo interventi improvvisi di guerriglia, azioni studiate contro i nazifascisti e ci appoggiavamo ai vecchi, che conoscevano bene il territorio, alle donne, che facevano le staffette. Comandavo una Brigata che si chiamava Aldo Casalgrandi, dal nome del primo partigiano ucciso dai tedeschi, formata da quattro battaglioni e tre distaccamenti, cui si doveva aggiungere il controllo degli abitanti del territorio, essenziali per le nostre azioni. Azioni prevalentemente notturne, interpellavo i vecchi prima di tutto perchè ci segnassero la strada alternativa a quelle presidiate dai tedeschi, altrimenti non avremmo potuto muoverci. I vecchi costruivano passaggi in campagna, aprendo varchi nelle siepi, così da poter consentire l’attraversamento dei terreni chiusi, da un podere all’altro, ed evitare le strade presidiate. E poiché la missione poteva essere lontana anche trenta chilometri, intanto noi preparavamo le guide che si avvicendavano a staffetta, per portare le armi, quando riuscivamo ad averle dagli americani. I cani, svolgevano un ruolo anch’essi: chiusi nei cascinali quando noi uscivamo e c’era il coprifuoco perché, se avessero abbaiato, i tedeschi avrebbero facilmente scoperto e seguito il nostro percorso.
D. E quando fu catturato dai tedeschi?
R. Fummo scoperti a seguito di delatori e due dei nostri immediatamente fucilati sul posto. Gli altri, fummo ammanettati con fil di ferro, e legati insieme in carovana con una corda al collo, per impedire ai partigiani di sparare contro i tedeschi che ci avevano catturato. Poi fummo portati a Reggio Emilia e a Gonzaga, per attraversare il Po, e poi Mantova e poi il carcere di Verona, dove i tedeschi mi torturarono, per avere notizie del resto del distaccamento, costringendomi a bere terribili miscugli e provocandomi ferite dolorosissime ai piedi. Ma da quella prigione ebbi la fortuna di fuggire con l’aiuto di un sardo, tale Demuro, come tanti entrato nell’esercito di Salò non sapendo che fare, ‘per poter mangiare‘ diceva, e, adesso deciso a tornare in Sardegna, pensando di poter contare su di me. Uscimmo da Verona grazie all’aiuto della Resistenza veronese, gli operai della manutenzione del carcere che, cantando canzoni fasciste, mi presero in braccio, come fossi ubriaco, non potendo io camminare per le ferite ai piedi. Arrivammo a Parma in camion, dopo aver attraversato il Po sul traghetto Guastalla, sotto il pericolo di attacchi e bombardamenti inglesi. E avevo anche tanta paura che il mio passaggio nel territorio di Spilamberto fosse azione preordinata per scoprire le basi logistiche e le armi della nostra lotta, pur non avendo dato informazione alcuna su di me al Demuro, cui avevo detto di chiamarmi Ligas. Solo quando potei essere sicuro del contrario, ripresi a percorrere la strada che portava a Spilamberto e, poichè mi bruciavano i piedi per le ferite, tolsi le scarpe e percorsi scalzo l’ultimo tratto sulla neve. Fu una famiglia del paese a prendersi cura di me e, pur essendo stato sostituito durante la prigionia a Verona con altri responsabili di zona, potei presto riprendere la lotta mentre, come seppi in seguito, Demuro rientrò in Sardegna, passando fortunosamente la Linea Gotica, che io non avrei mai potuto attraversare. Fu in quegli stessi giorni che, grazie all’aiuto dei nostri informatori sui movimenti del tedeschi, organizzammo l’attacco ad una lunghissima colonna tedesca scortata da autoblindo, mentre attraversava il nostro territorio. Col calare della notte, io presi i migliori 20 ragazzi della mia formazione e li disposi in modo appropriato lungo il costone sopra la strada: avevo fatto caccia grossa in Sardegna, da ragazzo, e sapevo disporre gli uomini e dare l’angolo di tiro per evitare che si verificasse il fuoco incrociato. Dopo quattro ore, al rumore dei motori, detti l’ordine di sparare solo finito il passaggio dell’ autoblindo di testa e per 20 secondi attaccammo il fuoco contro la colonna, uccidendo 7 tedeschi e mettendo fuori uso un cingolato per il trasporto merci. Quindi fuggimmo, spargendoci in giro, ciascuno in posti diversi, già stabiliti prima. Lotta partigiana nei territori occupati dai tedeschi, secondo un’organizzazione militare. Mordi e fuggi le nostre azioni, attaccare e sparire, perchè c’erano i carri armati tedeschi che proseguivano le azioni anche dopo i nostri attacchi. Ed era dolorosissimo pensare, all’inizio di ogni azione, che qualcuno di quei ragazzi, così decisi e coraggiosi, avrebbe anche potuto non tornare mai più indietro.
D. Cosa sa della morte di Mussolini?
R. Non essendo stato testimone dei fatti, racconto ciò che i partigiani dicevano. Nelle liste dei criminali di guerra in testa c’era Mussolini e noi partigiani eravamo autorizzati a ucciderlo subito. Mussolini, vestito con una divisa tedesca e nascosto dentro un camion tedesco, fu riconosciuto in un posto di blocco organizzato dai partigiani, mentre tentava di raggiungere il confine. Guardato a vista dai suoi carcerieri, ci si appellò alle direttive del Comitato di Liberazione Nazionale, presieduto da Cadorna, e se ne decise la fucilazione. Vidi nei giorni successivi piazzale Loreto a Milano ed i corpi dei fascisti esposti, nello stesso luogo dove l’anno prima un gruppo di partigiani furono fucilati dai militi fascisti.
D. Vorrei sapere cosa successe una volta rientrato in Sardegna.
R. Difficile il rientro a Cagliari, perchè la gente, come nel resto d’Italia, restò indifferente alle nostre vicende e fu impegno gravoso innanzitutto riuscire ad ottenere la documentazione, per essere riconosciuto partigiano dal Ministero della guerra. Ripresi gli studi tra l’indifferenza della gente nei miei confronti e nei confronti della storia partigina, e siccome noi reduci potevano usare tre sessioni d’esami, dopo tre anni presi la laurea in Giurisprudenza. Ma le delusioni e le peripezie del rientro non erano ancora terminate. Durante ‘la campagna di Scelba contro i partigiani‘, fui arrestato e rinchiuso nel carcere di Cagliari, a seguito di una lettera anonima che mi accusava di aver ucciso un fascista, nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra. Mi salvò la testimonianza di un cittadino, che dimostrò come in quel periodo io ero già rientrato a Cagliari: Mario Scelba, prima come Ministro dell’interno e poi come Presidente del Consiglio, lanciò un attacco durissimo contro i partigiani, mentre teneva nascosta la documentazione sulla loro attività e sul loro ruolo, così importanti per la liberazione dell’Italia e per la costruzione dello Stato democratico. Documentazione che fu poi recuperata solo al tempo di Pertini Presidente della Repubblica, il Presidente partigiano che la mise a disposizione di storici e studiosi. E intanto banche e uffici, sapendo che ero stato partigiano, mi allontanavano e si rifiutavano di assumermi, e fu un altro calvario questo, fino a quando non presentai domanda al Segretario della Consulta Sarda, che cercava un laureato in Giurisprudenza, e divenni funzionario della Consulta prima, del Consiglio Regionale poi, nel 1949.
D. Quanto ha inciso l’esperienza partigiana nella sua vita?
R. Mi son sempre battuto per aiutare i lavoratori, mi ha dato l’impronta la Resistenza. Ricordo sempre braccianti e contadini modenesi veramente maltrattati: lavoravano duramente la terra, dovendo anche fornirsi degli attrezzi necessari, e percepivano solo la metà del raccolto, mentre si arricchiva il marchese Rangoni con i suoi oltre 400 fondi a mezzadria. Mi ha reso un uomo onesto la partecipazione alla Resistenza, mi ha indotto a capire che uno Stato ben amministrato non toglie ciò che può andare al lavoratore povero, pensiamo alla povertà di oggi, se un insegnante, col suo lavoro così impegnativo, guadagna solo 1200 euro al mese. Mi ha reso uomo onesto, attento al mio lavoro e particolarmente impegnato, negli anni Settanta, in esperienze interessanti anche a livello ministeriale, come la partecipazione al gruppo che ha redatto il Rapporto Giannini per la riforma della Pubblica Amministrazione, importante documento, purtroppo mai tradotto in legge.
D. Del Dvd mi ha colpito il racconto sul vostro impegno, finita la guerra, per ‘convertire’ alla democrazia un popolo abituato alla dittatura.
R. Fu nostro compito, dopo la Liberazione, affrontare il problema di come trasformare la società in direzione dei diritti e della democrazia. Stetti a Modena due anni per ‘insegnare il passaggio’ dalla vita sotto il fascismo alla vita in democrazia. Cercavamo di portare il senso della democrazia dove i grandi spadroneggiavano, mentre i deboli subivano, i miliardari che non pagavano le tasse e la gente che moriva di fame. Non pagare le tasse è andare contro la democrazia, maltrattare i dipendenti è togliere la libertà. Andavamo a insegnare agli italiani come poteva svolgersi la vita in un paese democratico, dopo l’oppressione ventennale che aveva impedito alla gente anche di concepirla la democrazia. Andavamo a sostenere la popolazione e a insegnare la democrazia, a fare in modo cioè che la gente partecipasse di nuovo da cittadini alla vita del nuovo Stato, che si stava costruendo in preparazione della Repubblica.
D. Geppe, il comandante partigiano Nino Garau, esprime quindi lo spirito della Resistenza, lo spirito del ragazzo normale che non poteva accettare quel sistema?
R. La Costituzione ci aiuta a capire quel passaggio della nostra esistenza, quella ribellione che ha liberato l’Italia dall’oppressore. Infatti la Costituzione che cos’è? E il fatto che si sono riuniti nell’Assemblea Costituente i Partiti di diverso orientamento e diverso pensiero politico, d’accordo per fare la Costituzione, persone preparatissime, antifascisti che avevano combattuto contro il regime e contro i tedeschi, da Sforza a Togliatti. Oggi quella lezione non è stata capita, oggi prevale la divisione e continuano perciò a nascere sempre nuovi partiti, poco legati alla vita dei cittadini. In quel tempo le questioni si risolvevano dentro le organizzazioni politiche, nel rispetto della Costituzione, oggi ognuno procede per conto suo.
Un albero dal grosso tronco è la Costituzione, piantato in una terra incontaminata, di cui si possono tagliare i ramoscelli, secondo i nuovi orientamenti adeguati al tempo in cui viviamo. Ma il tronco deve restare solido, quello stabilito dai Costituenti, per consentire la nascita di nuovi germogli, che siano espressione delle nuove esigenze dei cittadini.
1 commento
1 Alessandra Piras
26 Aprile 2015 - 20:10
Sarebbe utile qualche informazione sul documentario.
Riposta
Il cd con l’intervista a Nino Garau è in fase di ultimazione da parte dei curatori.
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