Gonario Francesco Sedda
Alcuni giorni fa ho cominciato a discutere [Stefano Fassina e il “suo” PD, Democrazia Oggi, 16 aprile 2015] di un intervento di Stefano Fassina [Partito della nazione e sinistra di governo, il manifesto, 11 aprile 2015].
L’esponente della minoranza del PD ha scritto di un «riposizionamento centrista del Pd», di una «deriva centrista-plebiscitaria» del partito di Matteo Renzi. In quanto “partito pigliatutti”, non più «alternativo al centrodestra», il PD renziano sarebbe destinato a diventare il Partito Unico della Nazione e quindi «fattore di inibizione della democrazia dell’alternanza». Infatti dilagherebbe in gran parte dell’area sociale e politica del centrodestra impedendogli di raggiungere la massa critica per strutturarsi come “destra moderna e responsabile” ed esponendolo alla pressione della destra rabbiosamente reazionaria della Lega di Matteo Salvini. Col rischio di favorire la nascita di «una soggettività politica di sinistra, possibile evoluzione della “coalizione sociale”, condannata però, come sull’altro versante la destra anti-euro, a rimanere fuori dalle funzioni di governo e attratta dalla protesta e dal populismo».
Mi sono permesso di connotare il PD in modo diverso da come lo vede S. Fassina e di mettere in dubbio lo scenario politico delineato sulla base di un’analisi che accredita come «consolidata». E ho accennato al fatto che la costruzione di un partito “alternativo” non può essere solo l’evoluzione di una “coalizione sociale”, anche se per nascere e crescere esso avrebbe bisogno di uno “stato permanente di coalizione sociale”. Io auguro un fortissimo successo alla proposta della Fiom (e di S. Rodotà e altri). Occorre lavorare per un suo successo oltre ogni aspettativa e oltre i suoi limiti. Ma quella “coalizione sociale” non basta e non basterà. Un nuovo partito “alternativo” – se nascerà e crescerà – non sarà il regalo di nessuno, ma il risultato di una faticosa costruzione collettiva nella lotta e con la lotta (sociale, politica, teorica, culturale).
1. La domanda che si è posto S. Fassina è questa: «la tendenza descritta è frutto esclusivo o primario delle scelte di Matteo Renzi e della “sterilità delle cosiddette minoranze del Pd” oppure è trainata da dinamiche profonde, presenti nelle democrazie mature e, in particolare, nei paesi periferici dell’eurozona? In altri termini, è possibile un sistema vivificato dall’alternanza in democrazie nazionali svuotate di capacità di governo dalla globalizzazione e, nel vecchio continente, ulteriormente indebolite da una moneta senza stato?».
La domanda così strutturata sembra spingere a una sola risposta: quello scenario non è frutto «esclusivo» delle scelte di Matteo Renzi e della sterilità delle minoranze del Pd. Ma il richiamo al “risultato” (che sembrerebbe quasi obbligato) delle dinamiche profonde di un processo porta a sminuire le “responsabilità” degli attori (ciascuno secondo il proprio peso) dentro quello stesso processo. E le responsabilità di M. Renzi sono sicuramente “primarie”; la debolezza e sterilità delle minoranze del PD sono evidenti.
Non mi è stato mai del tutto chiaro il richiamo alle “democrazie mature” che non si sa mai fino a che punto siano mature o quando finiranno di maturare o se una volta mature cominceranno a deperire. Comunque «un sistema vivificato (!!??) dall’alternanza» è possibile anche nelle democrazie a regime maggioritaristico-oligarchico, soprattutto quando manca un forte partito “alternativo”.
Certo, sulla globalizzazione si discute «da decenni»; e «vengono pubblicati volumi e saggi a getto continuo». Non mancano gli interventi critici, ma la narrazione corrente e abusata fino alla tossicodipendenza è una favola che piace soprattutto ai padroni. Globalizzazione è la parola magica che mette a tacere tutti e che tutto spiega. E così S. Fassina può lamentarsi perché la globalizzazione ha riservato all’Europa «una moneta senza stato», ma nello stesso tempo non vede che il resto del mondo “globalizzato” ha una moneta “con” lo stato!
Anche sulle «democrazie nazionali svuotate di capacità di governo dalla globalizzazione» si può avere qualche dubbio.
Nel mondo globalizzato gli Usa non sono più una “nazione”? Se non lo sono e nella misura in cui non lo sono, la loro “democrazia matura” è stata svuotata di capacità di governo dalla globalizzazione? E il Canada? E il Regno Unito? E la Germania? Tutte «democrazie nazionali svuotate di capacità di governo dalla globalizzazione»?
Certo, le “nazioni” sono cambiate nel tempo e alcune caratteristiche distintive si sono fortemente attenuate o sono scomparse. Ma una discussione sulla semplice scomparsa delle “nazioni” (quasi sempre in chiave giustificativa delle proprie debolezze e/o compromissioni) può essere fuorviante in quanto maschera i processi di formazione di nuovi equilibri/squilibri geopolitici, di instaurazione di nuovi rapporti di dipendenza tra centro (centri) e periferia (periferie). E la dipendenza o la si accetta elaborando l’ideologia di un immutabile stato di necessità o la si rifiuta considerandola uno stato congiunturale di rapporti di forza sfavorevoli e lavorando da subito per contrastare, modificare, rivoluzionare quei rapporti di forza.
Un “centro” che voglia instaurare (in termini di puro dominio o di egemonia) rapporti di dipendenza della periferia non ha bisogno di un “vuoto” di capacità di governo, ma di una forte “presenza statuale nel territorio” subalterna (a suo servizio, obbediente). Semmai sono un problema le resistenze prolungate o l’insubordinazione.
Del resto rapporti di dipendenza tra centro e periferia ci sono stati anche tra “vere” nazioni, nel passato … quando l’idea dell’estinzione delle nazioni non si trovava né nelle analisi serie né nel chiacchiericcio ideologico; e della globalizzazione ne aveva parlato solo Karl Marx.
2. «Per noi – ha scritto S. Fassina – nell’eurozona pesa un aggravante: dato il quadro istituzionale della moneta unica e data la linea di politica economica dettata dallo Stato dominante e dagli interessi economici più forti, la politica finisce di essere terreno di scelta […] il dato politico è evidente: nella gabbia mercantilista dell’eurozona, alternative di governo non sono praticabili».
Invece la politica può sempre scegliere sia nel quadro istituzionale della moneta unica e/o di una democrazia oligarchica o di una dittatura, sia quando la politica economica (e non solo) viene dettata da uno Stato dominante e/o dagli interessi economici più forti. Chi non condivide disobbedisce, si oppone, si separa. Non si lascia semplicemente “attrarre” dalla protesta, ma la sente, la percorre, l’alimenta, contribuisce a organizzarla e a indirizzarla verso esiti favorevoli e duraturi per i “subalterni”. Ed sarebbe persino “populista” se populismo volesse dire promuovere e difendere gli interessi delle “larghe masse popolari”.
Se è evidente che nella gabbia mercantilista dell’eurozona alternative di governo non sono praticabili, allora la cosa semplice da fare è andare all’opposizione. Sono andati e possono andare all’opposizione i partiti della “destra moderna e responsabile”, i partiti centristi, i partiti democratici (laburisti, socialdemocratici, ecc.). Perché mai non possono farlo i partiti “alternativi”? Perché una “sinistra” di governo dovrebbe stare sempre e comunque al governo? Perché un partito “alternativo” all’opposizione dovrebbe essere sempre e comunque una forza malata di minoritarismo, testimoniale, sognatrice, estremistica, protestataria e “populistica”? Lavorare dall’opposizione sulla base di un programma fondamentale per rivoluzionare lo “stato presente delle cose”, costruire con politiche di breve e medio periodo, con la lotta e nella lotta, il blocco sociale per governare sulla base dei propri progetti invece di eseguire la politica economica (e non solo) «dettata da uno Stato dominante e dagli interessi economici più forti», non «declamare l’Europa del dover essere e gli Stati Uniti d’Europa» e non «sperare in una miracolosa conversione degli interessi più forti, nazionali e di classe»: tutto questo sarebbe buono per una “sinistra di governo” come la vorrebbe S. Fassina e invece disdicevole per un partito “alternativo”?
Su una cosa ha ragione l’esponente demominoritario: sarebbe un’illusione credere che «sia sufficiente una scissione dal Pd e la riaggregazione di ceto politico spiaggiato per “fare l’alternativa”». E tuttavia sarebbe augurabile che le minoranze del PD facessero un’opposizione efficace al riformismo retrogrado e restauratore di M. Renzi, che non avessero paura di buttare sabbia nel meccanismo decisionale del renzismo senza escludere (avendone l’occasione e qualunque essa sia) di bloccarlo e farlo esplodere in mille pezzi.
Si può parafrasare lo stesso Stefano Fassina e dire che un dato è evidente: «nella gabbia» liberal-liberista (sia pure in versione liberaldemocratica) del PD, politiche “alternative” «non sono praticabili».
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