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La manifestazione lanciata da Landini a Roma sabato è un avvenimento che può segnare l’inizio di una svolta nella politica italiana, il primo passo per la costruzione di una nuova sinistra nel nostro Paese, alternativa alla vecchia destra di Berlusconi e alla neo-destra di Renzi. Torniamo pertanto sull’argomento con questa riflessione della direttrice de Il Manifesto.
Se la misura della piazza serve a far capire la forza delle opposizioni sociali di un paese, si può dire senza dubbio che piazza del Popolo a Roma ha dato un grande segnale. Con qualche novità rispetto a molte manifestazioni degli ultimi anni. La presenza di tanti giovani, e quindi non solo dei valorosi pensionati della Cgil che di solito riempiono i cortei sindacali; il ritorno di molte bandiere rosse, non del vecchio Pci e tantomeno di quelle sbiadite del Pd, ma della Fiom; l’entusiasmo della gente che si è ritrovata per esprimere un punto di vista che oggi non ha la necessaria rappresentanza politica.
Naturalmente una piazza non fa primavera, anche se la giornata era piena di sole e Maurizio Landini, il protagonista della manifestazione, con la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso a fare da potente spalla dell’iniziativa, ha voluto sottolineare che una «nuova primavera per il paese è iniziata».
Ma la “protesta” di ieri forse rappresenta l’inizio di un processo trainato da un’idea forte di rinnovamento delle forze sociali e sindacali, politiche e di movimento, un’idea riassunta dallo slogan della manifestazione, «Unions», traducibile in un ritorno alle radici del sindacalismo. Che il segretario della Fiom, nel suo discorso conclusivo, ha riassunto con i ripetuti rimandi all’idea fondativa della Cgil di Di Vittorio: di un sindacato delle Confederazioni, così diverso da un sindacalismo corporativo, basato sulla competizione dei lavoratori.
E’ la spinta verso un ripensamento profondo della natura del sindacato, dettata sia dalle sconfitte subite con il progetto confindustriale che marcia spedito sotto le ali del governo, sia dalla perdita di rappresentatività prodotta da una crisi economica che ha allargato il mare della disoccupazione e prodotto un esercito di precari fuori da ogni tutela e diritto. Così chi oggi ha ancora un lavoro deve subire il comando pieno dell’impresa (abolizione dell’articolo 18, demansionamento, contratti nazionali polverizzati dalla catena perversa del sistema degli appalti), e chi un lavoro lo cerca è merce di scambio e manovalanza per la feroce guerra tra poveri.
Più che una fantasia, una velleità o una scorciatoia, la coalizione sociale è una necessità vitale per ricostruire la figura del cittadino lavoratore (come appunto indicava Di Vittorio quando negli anni ’50 già parlava di uno statuto del «cittadino lavoratore»). E coalizione sociale vuol dire una cosa semplice: ricostruire le basi di una partecipazione democratica, dunque politica, ai destini dell’Italia.
Perché chi oggi accusa il segretario della Fiom di voler fare l’ennesimo partitino dovrebbe piuttosto domandarsi come è stato possibile arrivare a questo disastro sociale, a un così forte ridimensionamento del ruolo del sindacato, alla negazione dei diritti. E anche interrogarsi sulla subalternità, questa sì politica, verso governi o partiti amici di quel «giaguaro» che nessuno ha smacchiato e in molti hanno nutrito.
Ritrovare una soggettività politica diventa un bisogno naturale e l’alleanza con tutte le realtà associative che non si rassegnano è una via maestra per rafforzare l’opposizione a un governo ricco di slogan almeno quanto è povero di un innovativo progetto di sviluppo. Perché mettere in pratica la linea di Squinzi, o una riforma costituzionale ed elettorale di regressione verso forme di plebiscitarismo mediatico non sembra davvero una grande novità. Né in Italia, né in Europa. Come direbbe Landini «non raccontiamoci di balle». Che fa traballare la sintassi, ma si capisce.
Domani è il compleanno di Pietro Ingrao. Cento anni applauditi da tutto il popolo della piazza quando Landini ha ricordato il giorno in cui, da presidente della Camera, si recò, come primo atto pubblico, alle Acciaierie di Terni per rivolgersi agli operai chiamandoli «i costituenti». Un messaggio a chi ha scarsa memoria del paese che pretende di governare.
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