Gianfranco Sabattini
“Capitalismo e pulsione di morte”, di Gilles Dostaler e Bernard Maris, narra di un punto d’incontro tra Sigmund Freud e John Maynard Keynes, nato dalla collaborazione di due docenti di economia, Gilles Dostaler e Bernard Maris, quest’ultimo ucciso nell’attentato alla sede di Charlie Hebdo del gennaio scorso; entrambi appassionati dell’opera di Keynes, in quanto “antidoto agli errori e alle derive del pensiero economico contemporaneo”, e interessati al pensiero di Freud.
All’Università di Toulouse, dove gli autori si sono conosciuti, hanno così scoperto che entrambi avevano le stesse idee “sullo stretto rapporto tra il pensiero di Keynes e quello di Freud, nonché sul fatto che le influenze tra i due autori erano influenze incrociate”, nel senso che i due grandi pensatori del XX secolo “sognavano un’umanità colta”, con prospettive diametralmente opposte, ottimistica quella di Keynes, pessimistica quella di Freud: per il primo, la psicoanalisi, dal momento che permetteva di scrutare le “tenebre e il male”, poteva contribuire alla realizzazione di quel tipo di umanità; per il secondo, la civiltà, col capitalismo, sviluppando la scienza e la tecnica, non accresceva la felicità dell’umanità, ma liberava una forza che l’avrebbe resa vittima di se stessa.
Dostaler e Maris assumono come paradigmi della riflessione sul capitalismo due opere risalenti agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso: “Prospettive economiche per i nostri nipoti” di Keynes e “Il disagio della civiltà” di Freud”. La prima è una riflessione ottimistica sul miglioramento culturale dell’intera umanità, reso possibile dallo sviluppo delle forze del capitalismo, mentre la seconda è, al contrario, una riflessione pessimistica sul futuro della civiltà, in quanto, pur essendo divenuta col capitalismo “energia di vita e di mantenimento della specie umana, porta in sé una pulsione di morte contro la quale lotta senza tregua”.
Anche se la civiltà non va confusa con il capitalismo, essendo nata molte migliaia di anni prima, il linguaggio di quest’ultimo, però, fatto di mercati, denaro, contratti, accumulazione e di altro ancora, è la forza che oggi la modella e la descrive, proponendosi all’umanità per la realizzazione della liberazione dal bisogno. Ma la forza del capitalismo – si chiedono Dotstaler e Maris - dopo aver rimosso il problema economico della scarsità, condurrà l’umanità verso una società dell’abbondanza, come sostiene Keynes, oppure verso una società-termitaio, dove tutti, dopo essere stati privati delle volontà individuali, saranno controllati e sorvegliati da un Moloch informatico, come sostiene Freud?
Dotstaler e Maris propendono per la società-termitaio e per la morte dell’umanità. Ciò perché il capitalismo rappresenterebbe uno stadio nuovo e specifico dell’evoluzione della civiltà; stadio in corrispondenza del quale “invenzione e tecnica vengono dirottate, canalizzate e sistematicamente applicate all’accumulazione di beni”. Poiché l’accumulazione di beni fine a se stessa ad altro non vale che a spalancare “le porte a una pulsione di morte”, questa, come sostiene Freud, insieme all’amore per il denaro e all’accumulazione di beni, descritti da Keynes, continueranno a connotare un’evoluzione della civiltà sorretta solo dalle forze incontrastate del capitalismo.
La realtà di oggi, secondo Dostaler e Maris, varrebbe inconfutabilmente ad evidenziare questa tendenza: “L’equilibrio del terrore tra due soli giocatori ha fatto il suo tempo. […]. Le armi si sono democratizzate, è comparso il terrorismo ed è pronta ad esplodere la bomba ecologico-climatica, mentre la pentola dell’economia ci ha cucinato una crisi finanziaria che va a sommarsi alla crisi delle materie prime. Nuovi mostri sono apparsi: la Cina […] coniuga dittatura e mercato, intercetta il 40% delle nuove risorse petrolifere scoperte ogni anno, accaparra metalli […] per soddisfare la propria volontà di potenza”. Che prospettive possono aversi – si chiedono Dostaler e Maris – di fonte a questo presente demoralizzante? Poiché il reale è effimero, di consolante non ci sarebbe che l’altro mondo. Viene subito da osservare: questa prospettiva potrà essere accettabile per chi crede nell’esistenza di un aldilà; e per chi non ci crede, quali alternative residuano?
Il problema, per chi ancora crede nella ragione, non sta nel “rifondare il capitalismo”, come normalmente si sostiene; non si tratta di rifondare ma di regolare il modo proprio di funzionare delle istituzioni del capitalismo, così come era stato fatto nel primo trentennio successivo al secondo conflitto mondiale. La paura che la specie umana possa scomparire può essere messa da parte, solo se la riflessione viene condotta sulla base della distinzione, che Dostaler e Maris hanno mancato di considerare, esistente tra il capitalismo inteso come “categoria storica”, oppure come “categoria logica”.
La considerazione del capitalismo come categoria storica ha condotto Dostaker e Maris a connotarlo solo in base agli esiti del funzionamento spontaneo delle sue istituzioni; se non sono conformate al perseguimento di finalità socialmente condivise, queste producono solo effetti che, a lungo andare, giustificano il sospetto che realmente possano non lasciare alcuna prospettiva di una possibile vita futura per l’umanità. Al contrario, se il capitalismo è assunto come categoria logica, esso non può che essere percepito come prodotto della razionalità moderna, il cui impiego, quando sia socialmente orientato, può consentire all’intera umanità di costruire e di plasmare il proprio futuro. E’ questo il senso che i padri fondatori della scienza economica hanno assegnato alla messa a punto dell’apparato teorico e tecnico che la contraddistingue, per liberare l’umanità dal bisogno e dall’indigenza, non per affliggerla col perseguimento di obiettivi catastrofici.
I padri fondatori dell’economia hanno messo a punto strumenti intellettuali utili a risolvere ciò che lo stesso Keynes in “Esortazoni e profezie” ha chiamato il “problema politico dell’umanità”, attraverso la combinazione dell’efficienza economica, della giustizia sociale e della libertà individuale. La soluzione di questo problema ha condotto all’affermazione dell’idea che l’uomo sia principalmente un prodotto delle sue condizioni materiali e che tali condizioni non siano immutabili e non dipendano da diktat ultraterreni e dalla natura.
L’aspirazione a mettere nelle mani dell’uomo il governo del suo destino è stata la molla che ha ispirato l’attività di ricerca dei padri fondatori dell’economia. Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, John Stuard Mill, Léon Walras, Vilfredo Pareto, Alfred Marshall, Arthur Cecil Pigou e tanti altri, ispirati dai grandi progressi delle scienze naturali, hanno forgiato gli strumenti che hanno consentito di mettere a disposizione dell’umanità una grande ricchezza di nuove opportunità, destinate a cambiare la vita per tutti gli abitanti della terra.
Nel campo degli studi economici e sociali, il ricupero della memoria del contributo dei grandi pensatori alla liberazione dell’uomo dal pessimismo cui lo costringevano la povertà e il bisogno, deve servire a rivivificare le forze per il superamento dell’attuale modo di utilizzare quelle nuove opportunità, evitando che la rifondazione del capitalismo possa essere unicamente ridotta e semplice proposizione di un’economia ambientale o di un’economia meno condizionata dai mercati finanziari; diversamente, la rifondazione del capitalismo non sarebbe altro che il capitalismo attuale “dipinto di verde”, oppure meno afflitto dal succedersi dello scoppio delle bolle speculative dei mercati finanziari. Ciò che occorre è la rimozione della presunta, non disinteressata, neutralità delle istituzioni economiche, perché siano ricondotte nelle mani dell’uomo, per la libera e consapevole progettazione e realizzazione del proprio destino.
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