A.P.
Ho letto in questi giorni un agile libretto di Gian Luigi Beccaria, “Mia lingua italiana”, Einaudi, 2911.
Cosa sostiene questo insigne linguista, membro dell’Accademia della Crusca? Ecco la sintesi del libro nella presentazione che ne fa l’editore.
“Per prima è venuta la lingua. Non c’era ancora la nazione, ma da secoli esisteva un’unità linguistico-letteraria nazionale. «Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt», scriveva Isidoro di Siviglia: sono le lingue che fanno i popoli, non i popoli già costituiti che fanno le lingue. Gli ambiti in cui si sono realizzati valori in grado di unire piú di ogni cosa l’Italia e tali da costituire la linea maestra di un’aspirazione unitaria non sono stati tanto principî oggettivi o materiali, l’etnia, l’economia, il mercato, il territorio, una comunità di costumi, la politica ideale dell’uguaglianza e della democrazia, l’unità delle istituzioni giuridiche, il principio della tolleranza o altro ancora. La coscienza e la volontà di un’unione si sono basate soprattutto su un valore culturale (la lingua della letteratura, la sua validità e la sua tenuta) che ha prefigurato sin dalle Origini un’unità immaginata e inseguita come un desiderio. «È un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa» il popolo italiano, ribadirà Gioberti nel secolo dell’Unità.
Non è stata dunque una nazione a produrre una letteratura, ma una letteratura a prefigurare il progetto di una nazione.
Ora, a centocinquant’anni dall’Unità, l’Italia sembra ancora un paese fragile: le differenze economiche, sociali, culturali si impongono con forza, il concetto stesso di patria appare svuotato, e il paese è addirittura percorso da tensioni separatiste. Ma c’è qualcosa in cui è possibile riconoscere quel senso di coesione e appartenenza che fa una nazione: la nostra lingua. La sostanza linguistica è il collante che ci tiene insieme ed è il materiale sul quale fondiamo la nostra identità di italiani.
Da Dante alla televisione, Gian Luigi Beccaria ci mostra il terreno nel quale affondano le nostre radici, e ripercorre l’avventura di una lingua che sa tenersi in equilibrio tra invenzione e tradizione, nel segno di una salda, sorprendente continuità”-
Il libretto è interessante perché affronta anche il problema dei dialetti o delle lingue regionali, e Beccaria lo fa da difensore delle parlate locali: “sul piano strutturale non si può fare distinzione alcuna tra lingua e diletto. Tutti i dialetti sono lingue, in Italia ne abbiamo centinaia. Ma è pur vero che diciamo lingua quel dialetto che a un certo punto per motivi culturali, economici, sociali, si è imposto sugli altri”. In Italia il fiorentino.
Non mancano le notazioni sul rapporto italiano-lingue regionali e sulle problematiche all’interno di queste ultime, come il sardo. Beccaria mette in luce l’assurdità del tentativo di creare lingue locali comuni. Sentite con quanta semplicità ed efficacia affronta il tema. “Si accusa di prepotenza l’italiano che opprime i dialetti e poi si pensa di operare tra i dialetti con ancora più pesante prepotenza. Ciascuno ama il proprio particolare dialetto, anche se poco noto fuori dalle sue mura, e non ha alcun motivo di apprendere per obbligo il dialetto di un’altra zona. Si pensi soltanto a cosa capita oggi in Sardegna, Un provvedimento della Regione ha letteralmente inventato una nuova lingua (la “limba comuna”) realizzando una lingua “mediana” tra le molte varietà del sardo per i documenti delle pubbliche amministrazioni”. Ma questo scontenta tutti. Anzitutto me, di madre lingua sulcitana, quella più vicina al latino volgare fra tutte le nostre varianti. Di una koiné sarda non so che farmene. Io ho solo necessità di parlare in sardo, perché per farlo ci vuole il contesto giusto e io ne ho sempre minori occasioni. Salvo che con gli artigiani anziani, ormai è impossibile anche nei paesi parlar sardo. Tutti anche i giovani, se non hanno con te familiarità, ti parlano in italiano. E se tu li apostrofi in sardo, ti rispondono in italiano per mostrarti che non sono ignoranti.
A chi serve dunque sa lingua comuna? A chi sulla lingua vuol fare piccoli affari, qualche impiego, qualche cervellotica e remunerata commistione di varianti a tavolino. Ma per i parlanti questa è una grave prepotenza ai danni della lingua-madre di ciascuno. Anche se, poi, in pratica, serve a poco: alla prima occasione i parlanti ricorrono al proprio sardo.
Si vogliono interventi della Regione? Più che sul piano dell’amministrazione (del tutto estraneo al sardo), opererei a favore dei parlanti, per favorire l’uso corrente del sardo. In questo, la scuola, il teatro, la musica sono veicoli essenziali. E già qualche risultato si coglie. Bisogna disinibire i sardi dal parlar sardo al di fuori del contesto familiare o strettamente amicale. Questo è l’obiettivo a cui bisogna applicarsi.
1 commento
1 Tonino Dessì
17 Marzo 2015 - 13:07
Ok. La penso anch’io così. La Limba Comuna vuole uccidere il sardo.
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