Il diritto. La Corte dichiara la questione infondata. Eppure, sono chiare le assonanze con la sentenza 1/2014 (quella contro il Porcellum), che infatti viene ampiamente citata — come la stessa sentenza riferisce — nell’ordinanza di rimessione. Cosa è cambiato?
Apparentemente, nulla. La Corte sottolinea gli elementi che differenziano la fattispecie in discussione da quella oggetto della sentenza 1/2014. Si tratta di voto locale, di elezione diretta, e di doppio turno. Elementi certamente oggi distintivi. Ma va considerato che i profili di principio potrebbero bene superare tali distinzioni, e che ormai il riferimento non è più solo il Porcellum oggetto della sentenza n. 1/2014, ma in prospettiva l’Italicum, probabile oggetto di pronunce future.
Rileva, ad esempio, che l’Italicum passi al doppio turno con ballottaggio. Secondo un’opinione, il ballottaggio contribuisce alla compressione della rappresentatività delle assemblee, contemporaneamente riducendo le opzioni disponibili per l’elettore e collegando a tale ridotta opzione un effetto di trascinamento maggioritario senza soglia. Nella sentenza 275 la Corte assolve il ballottaggio affermando che «nel dare il proprio voto al sindaco, la manifestazione di volontà dell’elettore è espressamente legata alle liste che lo sostengono e ciò giustifica l’effetto di trascinamento che il voto al sindaco determina sulle liste a lui collegate con l’attribuzione del premio del 60 per cento dei seggi. Il meccanismo di attribuzione del premio e la conseguente alterazione della rappresentanza non sono pertanto irragionevoli, ma sono funzionali alle esigenze di governabilità dell’ente locale, che nel turno di ballottaggio vengono più fortemente in rilievo».
È ben vero che si tratta di elezioni locali. Ma non sono forse argomenti che potrebbero tal quale trasporsi a livello nazionale? Probabilmente sì. E vediamo la ragione in un punto di debolezza della sentenza 275: non assume a proprio fondamento la considerazione del voto come diritto fondamentale e inviolabile. Che come tale trascina inevitabilmente un test di costituzionalità più rigoroso per la discrezionalità del legislatore: necessità, proporzionalità, indisponibilità di opzioni meno invasive. Possiamo forse pensare che il voto perda le sue caratteristiche genetiche a livello regionale e locale? Certamente no. Era questo il suggerimento del giudice a quo, che la Corte non ha inteso cogliere.
Incardinare il ragionamento sul voto come diritto era il fulcro della sentenza 1/2014. Scompare nella 275, e l’argomentare si risolve tutto nella razionalità del sistema politico-istituzionale e nelle esigenze di governabilità. La sentenza 275/2014 avrebbe potuto essere scritta tal quale anni addietro, ed è in realtà scritta come se la sentenza 1/2014 non avesse visto la luce.
La cosa rileva anche per i suoi riflessi ulteriori. Se qualcuno pensava di chiedere al capo dello Stato di favorire o richiedere un ripensamento sull’Italicum, qui troviamo un ostacolo. Il Capo dello Stato si attiva — per prassi — se riscontra una manifesta incostituzionalità nella legge che è chiamato a promulgare. La sentenza 275 offre argomenti a chi vorrà domani negare che per l’Italicum tale manifesta incostituzionalità vi sia.
Non facciamoci illusioni, e non cerchiamo scorciatoie. Indubbiamente Italicum e riforma costituzionale porrebbero fine alla democrazia parlamentare come l’abbiamo conosciuta, per volgere a un tempo di conformismo istituzionale, populismo paternalistico, scelte conservatrici. Se questo non piace non rimane che la via della politica. Quella vera, del parlare e del convincere, e non quella del Palazzo.
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