Cristian Ribichesu
L’agenzia AGI, il 26 lug. 2007, riportava il numero degli immigrati stranieri, 5.200, sbarcati l’anno scorso, contro i 9.389 del 2006. Come dichiarato dallo stesso capo della Polizia”. Un fatto nuovo e’ rappresentato dagli sbarchi sempre più frequenti sulle coste della Sardegna: dall’inizio dell’anno a oggi, sono approdati sull’isola, al termine di percorsi più lunghi e con meno controlli alla partenza, 472 algerini. Una realtà, questa, da approfondire sul piano sociale, visto che si tratta di gente che non fugge dalla fame ma e’ in cerca di avventura o, comunque, di una qualità’ di vita migliore”. Inoltre, il 28/07/2007, nel sito L’Unionesarda.it, compariva un articolo in cui veniva riferito lo sbarco, la notte precedente, vicino a Teulada, nel sud della Sardegna, di altri 17 clandestini arrivati su due piccole barche con motore fuoribordo.
Negli ultimi anni si è assistito ad un aumento dell’immigrazione regolare e clandestina e, sicuramente, è innegabile che la globalizzazione e il crescente divario fra sud e nord del mondo abbiano intensificato le migrazioni dalle nazioni povere verso paesi in cui vi sono, almeno, regole minime a tutela dei lavoratori e generali condizioni di vita migliori o accettabili.
Il continente che oggi sembra più interessato dal fenomeno migratorio è l’Europa. Soprattutto dopo il 1973, anno della crisi petrolifera, si è registrata un’inversione del movimento migratorio: l’Europa occidentale, compresa quella mediterranea, si è trasformata in meta per centinaia di migliaia di migranti nord e centroafricani e sudamericani, ma ormai provenienti anche dalla Cina e, dal 1990, dalla stessa Europa dell’est.
In realtà, le migrazioni hanno sempre segnato la storia e hanno contribuito a creare le culture delle società moderne. Anche l’Italia, tra il 1871 e il 1915, ha partecipato con quasi 15 milioni di abitanti, partiti prima dal nord e poi dal sud della penisola, alle migrazioni in varie parti del pianeta. Ma da paese d’emigranti, l’Italia, al centro del Mediterraneo e porta fra l’Europa e l’Africa, dall’ultimo ventennio del XX secolo è diventata destinazione per uomini provenienti dalle aree meno sviluppate del Mediterraneo, e, dopo l’89, da quelle dell’est europeo, dove guerre e crisi economiche hanno causato l’esodo di molti attraverso il “viaggio della speranza”. Al di là delle “scuole di pensiero” che dividono gli italiani sulle politiche dell’immigrazione, nonostante il fenomeno nazionale sia rappresentato da meno del 2% della popolazione, contro quasi il 5% della media europea, ma considerando che la situazione socio-economica italiana è differente da quella di altri paesi europei, che hanno una percentuale della forza lavoro maggiore rispetto a quella del nostro paese, non si può prescindere dal fatto che la nostra nazione e il mondo intero stiano andando, sempre più, verso una società multiculturale. Di conseguenza i fenomeni di rifiuto, accompagnati spesso da errate idee pregiudiziali, devono cedere il passo all’integrazione. Ma questa compresenza, con lo slittamento di pensiero dal nazionalismo al concetto di cittadinanza mondiale, può generare la perdita di valori importanti e una confusione tale che, paradossalmente, arriva fino all’isolamento del singolo in un contesto diverso da quello di provenienza.
Per contrasto, poi, particolarismi e localismi, prima assopiti, sono stati risvegliati dalla paura dell’annullamento per un livellamento generale. All’inizio del XXI secolo, quindi, occorre conciliare il mondiale col locale, anche per tutelare i diritti fondamentali di ogni cittadino, considerando cittadino chiunque.
Non solo, anche gli europei, con un invecchiamento della popolazione del “Vecchio Continente” e un contemporaneo aumento demografico nelle parti povere del pianeta, che hanno un’alta media della popolazione giovane, devono incentivare l’integrazione e la cooperazione con chi è differente. Infatti, benché l’immigrazione non dovrebbe essere causata dal bisogno, quanto da una volontà libera, e benché risulti doveroso risolvere i problemi dei paesi di provenienza degli stessi immigrati, la situazione di fatto vede il contatto di persone appartenenti a diverse culture, ma un contatto sbilanciato e antidemocratico che non prende in considerazione la condizione singolare di chi si trova “costretto” a vivere in un nuovo luogo, con problematiche che vanno ben oltre l’ostacolo del divario linguistico e che riguardano anche aspetti legati a usi, tradizioni, costumi, nonché le singolari storie personali implicanti le situazioni psicologiche dell’estraneità e la riuscita della stessa integrazione.
Insomma, problemi che devono essere risolti con l’educazione e l’istruzione. In tal senso, superando la compresenza passiva di persone di diverse culture, e il passaggio dell’analisi e della conoscenza di queste, occorre cercare il rapporto con la differenza attraverso la criticità della propria identità e l’interazione, il dialogo e la comunicazione attiva con le identità degli immigrati, la comparazione di idee, tradizioni e valori, creando collegamenti e punti d’incontro e evidenziando le differenze nell’ottica dell’arricchimento. L’interculturalità, inoltre, non può realizzarsi nell’appiattimento della cultura dell’immigrato, con la conseguente spersonalizzazione che sfocia nella perdita dell’appartenenza, sia dalla cultura di provenienza che da quella dell’accoglienza. Del resto è vero che in un’ottimale processo d’integrazione ogni gruppo deve essere conscio della propria identità, perché chi è proprietario di una conoscenza critica della propria specificità si può aprire senza riserve di ordine psicologico al contatto con “l’altro”. Se l’obiettivo primario dell’educazione interculturale s’illustra come promozione delle capacità di convivenza costruttiva in un tessuto culturale multiforme, è evidente che gli attori principali di questa educazione devono essere in primis agenti professionali incaricati dell’inserimento degli immigrati nel paese d’accoglienza (assistenti sociali, psicologi, personale paramedico, formatori, insegnanti), e in generale tutti nell’ottica di un approccio con “il prossimo” e non con “l’altro”. Proprio questi agenti devono svolgere un lavoro di mediazione promuovendo relazioni, anticipando possibili conflitti o sanandoli nei casi in cui siano sorti.
Davanti a migrazioni e povertà mondiali, la mediazione e l’approccio interculturale, superando il timore europeo e italiano di un allentamento sociale, sono indispensabili per una coesistenza pacifica, altrimenti è probabile che i già precari equilibri tra differenti stati, pure attraverso la pressione di vari “ismi”, possano sfociare in scenari di futuri conflitti internazionali o di rivolte urbane, anche interni alla stessa Europa.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.
Lascia un commento