Andrea Pubusa
Per gli altri può essere ciò che aggrada, per me che sono uno dei sempre meno di madre lingua, il sardo non è una lingua, è la lingua, sa lingua (lingua, non limba, che per me maurreddinu, è come dire language). Cosa sia poco m’importa, ma certo non è una variante dell’italiano, e dunque, il sardo non è “un mero dialetto”. Ora lo sentenzia anche la Cassazione su ricorso di Doddore Meloni.
Se mi permette il supremo giudice e se qualche altro mi concede, il sardo non è una minoranza linguistica, perché evocare la minorità significa dare un giudizio di valore in qualche modo negativo, mentre chi parla sardo ha qualcosa in più di chi non lo sa fare. E’ più ricco culturalmente. La legge deve prendere atto e riconoscere il diritto inviolabile dei nativi (art. 2 Cost.) e deve tutelarlo e promuoverlo come patrimonio culturale della Repubblica (art. 9 Cost.), non come idioma di una minoranza (art. 6 Cost.). Dunque il sardo deve essere riconosciuto dalla legge, e come tale è lecito per l’imputato chiedere di essere interrogato o esaminato nella madrelingua, come ha ben detto la Cassazione, che, riconosciuto il principio, ha però respinto per una questione procedurale la richiesta dell’indipendentista sardo Salvatore Meloni, in arte ”Doddore’, di invalidare la decisione impugnata per il “mancato utilizzo nel processo del dialetto sardo campidanese”. “La lingua sarda - dicono i giudici della quarta sezione penale - non può considerarsi mero dialetto, ma costituisce patrimonio di una minoranza linguistica riconosciuta” e va tutelato il diritto alla difesa. Ma va fornita una prova “formale” della appartenenza al territorio tutelato, cosa che Meloni non aveva fatto. Per cui la Cassazione ha bocciato la sua richiesta. Barocchismi giudiziari al massimo grado! Pretestuosità manifeste da legulei! Io l’avrei respinta per un’altra ragione, sostanziale non procedurale: nel processo è giusto e bello parlare in sardo quando il teste o l’inputato - come sempre meno accade - parla stentatamente l’italiano e malamente lo comprende, mentre è sciolto nel parlare e nel capire il sardo. Lo abbiamo fatto tante volte, legge o non legge, cassazione o no, in quelle che un tempo venivano chiamate “Preture rurali”. Veniva spontaneo e naturale con certi imputati o testimoni quando anche il giudice era sardofono. E che belle narrazioni erano quelle! Quanto erano colorite ed efficaci! Era la spontaneità a far premio su ogni altra cosa. Se però manca quella, la spontaneità, tutto diventa un artifizio ridicolo, come taluni che fanno trasmissioni in “lingua” alla radio, mischiando un po’ di tutto, di tutto un po’. Per questo, oltre che per esserne incapace, non parlerò mai la “lingua comuna”, ossia una non lingua, che distrugge il sardo vero, quello dei parlanti.
Chi non è nativo sul piano linguistico non sa e non può capire quale appagamento si prova nel parlare sardo spontaneamente nell’ambiente giusto e con le persone giuste. Il sardo parlato in modo artificioso e sforzato in talune assemblee o in taluni contesti invece è un’imposizione o autoimposizione, una violenza o autoviolenza, così come lo sarebbe imporre the common language.
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