Le lettera di Walter Piludu e la “buona morte”

4 Dicembre 2014
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Gianfranco Sabbattin ci scrive…

Caro Direttore,

condivido le tue considerazioni su uno dei cosiddetti temi sensibili della vita, qual è quello di affermare il diritto di decidere di porre fine o meno alla propria vita terrena, soprattutto nei casi drammatici qual è quello riproposto oggi dal caso di Walter Piludu. Al riguardo, ricordo che il Blog da te diretto ha ospitato nel 2008, in occasione del caso di Eluana Englaro, un mio intervento (“Sul diritto di morire”) sull’argomento, che mi permetto di riassumere a sostegno del tue dotte e sensibili riflessioni.
Al di là dello scontro politico e del conflitto di competenza che l’esercizio del “diritto di morire” da parte di chi soffre comporta, ciò che è importante stabilire è se la decisione di condizionare la libertà individuale spetti per tutti ad una data religione (o a qualsiasi altra ideologia), oppure al popolo sovrano attraverso i suoi legittimi organi decisionali aperti al pluralismo valoriale.
La pretesa di qualsiasi religione (o ideologia) d’essere l’unico garante del “mistero” della morte contro le insidie dei non-credenti, che, in quanto tali, mancherebbero di non avere rispetto per il più esclusivo dono di Dio, cioè della vita, è lesiva della libertà. A dirlo, tra l’altro, è il teologo Hans Kung.
Secondo il teologo, da sempre le religioni preparano l’uomo alla morte. Ciò perché l’uomo è costretto a vivere separato ed estraniato rispetto alla realtà del mondo della sua libertà; una realtà che l’uomo, secondo la sua sensibilità ed i valori condivisi, chiama in modi diversi: Assoluto, Dio, Luogo metafisico trascendente, ecc.
Non si tratta, dunque, della fede dei credenti in una risurrezione che non è lecito intendere come il ritorno in vita di un cadavere, ma nell’accettare l’esistenza di un “luogo metafisico trascendente”, sottratto all’influenza di tutte le condizioni dell’esistenza fenomenica, che consenta di pensare alla morte come ad una continuità nella discontinuità nel mondo della libertà.
Così, come i non-credenti non dovrebbero negare che i credenti, forti della loro fede in Dio, possano guadagnare un diverso rapporto con la morte, nello stesso identico modo i credenti non dovrebbero negare che i non-credenti, forti della loro fede nell’esistenza di un “luogo metafisico” come sopra è stato definito, possano anch’essi guadagnare un rapporto consolatorio con la morte.
Se così stanno le cose, è allora fuori discussione l’illiceità etica di una morte imposta per costrizione. E’ ugualmente fuori discussione la liceità etica dell’eutanasia nel senso di tentativo di rendere “buona” la morte senza per questo accorciare la vita. E’, infine, fuori discussione la liceità etica dell’eutanasia passiva, dove la morte è conseguita mediante la interruzione dei mezzi di sostentamento artificiale della vita, per cui nessun medico, o chi per lui, dovrebbe avvertire il dovere di prolungare ad ogni costo la vita umana al prezzo di un prolungamento dell’agonia.
Se tali principi, nel reciproco rispetto di tutti, fossero condivisi si potrebbe realmente dire che credenti e non-credenti riuscirebbero a trasformare la morte, il grande mistero del compimento della vita, in un’opposizione all’idea di una semplice fine.

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