Perché la paura è il più popolare dei nostri sentimenti?

22 Novembre 2008
Nessun commento


Gianfranco Sabattini

Aldo Schiavone su “la Repubblica”, commentando il paradosso delle crescita della paura nelle società più sicure sul piano esistenziale, osserva giustamente che, nonostante l’evidenza della sicurezza, la diffusione del timore e dell’ansia tende a non placarsi. Al contrario, l’insicurezza delle società occidentali pare alimentare il rovesciamento di tutte le possibili conquiste materiali “nel fantasma della loro possibile perdita, nella prefigurazione continua dei pericoli che le minacciano, nell’incubo della loro imminente vanificazione”.
Secondo Schiavone, sarebbe stata la capacità di interpretare e di dare voce al timore ed all’ansia dei cittadini che avrebbe consentito alla destra italiana di aggregare intorno a sé un blocco sociale e culturale compatto e di vincere le ultime elezioni politiche. Le analisi di Schiavone e di molti altri opinionisti di “la Repubblica”, hanno il vantaggio di colpire solo in parte nel segno, nel senso che descrivono e spiegano, in modo plausibile, le ragioni ed i motivi degli ultimi comportamenti elettorali degli italiani; esse, però, presentano il difetto d’essere affette, per così dire, da “strabismo politico”, per via del fatto che i loro autori imputano le cause degli esiti elettorali indesiderati alle sole forze della destra, trascurando di considerare che l’origine di queste cause sono anche da imputarsi alle forze che da decenni si sono, al contrario, identificate in schieramenti di centrosinistra.
In realtà, dove nasce, almeno in Italia, l’angoscia e la paura dei cittadini? Essa nasce, come sostiene Giorgio Ruffolo in suo articolo apparso sempre su “la repubblica”, dalla decomposizione sociale che ha sempre caratterizzato la lunga storia del nostro Paese dall’antichità ai nostri giorni e che le classi politiche delle formazioni statuali che si sono succedute nel tempo non sono mai riuscite in alcun modo a rimuovere.
Tralasciando quanto Ruffolo osserva con riferimento al succedersi delle ricomposizioni e scomposizioni che hanno preceduto l’unità politica della Penisola e limitandoci a considerare quanto è accaduto dopo il 1945, non è possibile sottrarsi alla constatazione, ancora una volta, come la propensione alla scomposizione della società civile nata dopo la fine del secondo conflitto mondiale, si sia puntualmente riproposta. Come lo stesso Ruffolo osserva, la Repubblica italiana, nata dall’apparente accettazione di valori unitari che avrebbero dovuto consentire di trascendere i conflitti correnti per assicurare al Paese una Costituzione socialmente avanzata, ha in realtà tratto il motivo della sua dinamica storica dalla dura concorrenza tra due forze popolari: la democristiana e la comunista. Se la Democrazia cristiana, attraverso la sua riconosciuta “centralità”, è riuscita a rintuzzare le pretese clericali di confessionalizzare la neonata Repubblica italiana e se il Partito comunista è riuscito a contenere le spinte insurrezionali di una parte della propria base, entrambi i partiti, tuttavia, a causa della loro contrapposizione ideologica, non hanno saputo indirizzare la loro forza riformatrice verso la realizzazione di una effettiva unità nazionale, con la conseguente impossibilità di aprire il Pese ai processi di modernizzazione che avvenivano nel resto dell’Europa occidentale. In tal modo, la Repubblica dei partiti, pur riuscendo a preservare l’unità politica, ha reiterato l’antico male dell’Italia, mancando di rimuovere le cause del riproporsi della disarticolazione sociale di sempre.
Questa è la vera causa del perché la paura è divenuta il più popolare dei nostri sentimenti; la società civile originata dall’azione dei più importanti partiti dell’Italia repubblicana, infatti, non è stata la risultante di un processo strutturalmente unitario, in quanto conservata allo stato di “mucchio di granelli di sabbia” che, esposto agli esiti negativi di ricorrenti crisi politiche, ha avuto modo di trovare rifugio e protezione in una sua fuga verso il privatismo. La responsabilità della decomposizione politica e sociale del Paese, perciò, è da imputarsi al fallimento dei suoi più importanti partiti; essi, infatti, avrebbero dovuto avere come loro compito storico quello di realizzare una vera unità nazionale attraverso il loro contributo all’attuazione di un progetto di società che affrontasse i problemi dello sviluppo economico, dell’eliminazione degli squilibri regionali, della realizzazione di un’equità distributiva, di un avanzato ed equo sistema di sicurezza sociale e di una organizzazione istituzionale dello stato in senso autenticamente federalista, evitando di istituzionalizzare la “foglia di fico” dell’ordinamento regionale.
Non solo, come afferma Ruffolo, il Partito comunista, ma entrambi i partiti di maggior “peso” politico, hanno mancato d’essere i proponenti di un progetto che consentisse il perseguimento di tutti questi obiettivi; essi hanno preferito dilaniarsi sul “chiacchiericcio dell’attualità” e a non confrontarsi per la rimozione del male storico del Paese. Questa è la ragione del perché, in assenza di un autentico spirito di solidarietà che solo un’autentica unità sociale poteva promuovere, la paura e la corsa verso il privatismo sono divenuti i più polari tra i sentimenti degli italiani.

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento