Andrea Pubusa
A fine settimana sono tornato nel mio Sulcis. Lo faccio sempre quando posso. Qualche lavoretto in bidda: due indicazioni a Efis, il muratore, che deve aggiustare il tiro di mezzo centimetro, piccoli problemi di livella e di piombo, e poi un giro dove capita, fino a S. Antioco per vedere che aria tira. Non solo nelle stradine interne, ma perfino scendendo dalla parrocchiale, dedicata al grande santo nero, medico di corpi e di anime, martire per essere voluto, lui intellettuale alto, stare coi poveri, con gli ultimi. Ma neanche lui può curare il male di oggi. Scendendo dalla chiesa, dicevo, dalla cripta che conserva le sue ossa, una scritta si presenta ossessivamente ai miei occhi: “vendesi”. Palazzine vecchie e ormai abbandonate da anni, case cadute in successione e che nessuno degli eredi può o vuole riscattare, appartamenti oggetto di liti ereditarie furibonde o più semplicemente prime case all’origine, diventate secondo dopo la morte dei vecchi o dopo la partenza per chissà dove, tenute per soggiorni momentanei, ma divenute sempre più care per via delle tasse e delle imposte. Seconde case, comunque, ex lege. Immondezza, non ci sei mai, ma la paghi come se ci vivessi 360 giorni all’anno. Luce e acqua quasi come sopra, ICI, Imu, Tari e via confondendo. Poi devi autodeterminare la tassa e immancabilmente sbagli la rendita catastale e allora i dieci euro di errore, più costi di notifica, interessi, penali e via discorrendo divengono 50 e più euro. Il Comune, che non guadagna più dai redditi da lavoro o da commercio, batte cassa. Ed ecco la risposta corale e generale: vendesi, vendesi, vendesi. Anche a Giba è la scritta, più ricorrente e a Santadi, a Nuxis, a Masainas e S. Anna Arresi. Ancora e sempre vendesi.
Antine Nivola fece un manifesto con la Sardegna in vendita o venduta. Erano i ruggenti anni ‘60. Divenne uno dei manifesti della contestazione. E da allora ce l’ho lì nel muro, quel poster ingiallito dentro il suo vetro. Pensavo di tenerlo a futura memoria di un passato triste, ma finito per sempre. Ma da allora non solo nulla è cambiato, ma la vendita continua. Prima erano le coste, ora anche i paesi. Continentali e tedeschi e francesi maturi comprano, case e furriadroxius. Vengono qui a svernare, quando da loro c’è freddo e vengono al mare d’estate, tutto per quattro soldi.
Se avessi qualche anno in meno e un po’ di risparmi in più, potrei comprarmi quasi interamente le due vie principali del mio paese, via Cagliari e via S. Pietro. Quelle case, dai tetti irregolari, finestre minuscole per ripararsi dal sole d’estate e dal freddo d’inverno, con tante storie di piccole felicità e grandi drammi, ora sono offerte al primo arrivato. Ci può essere autonomia, riscatto, futuro in un’Isola in vendita o già venduta? E i governanti? Di cosa si occupano i nostri governanti? E il ceto politico? Si salvi chi può! A s’afferra, afferra, senza solidarietà, senza pensare agli altri. Assalto alla diligenza e spartizione ringhiosa e avida del bottino. Che gliene frega a loro se intorno tutto è venduto o da vendere. Non c’è più anima. Cent’anni fa nelle trincee della Grande guerra i sardi hanno avuto per la prima volta coscienza di sé. Oggi, sotto la sferza della crisi e della globalizzazione, l’hanno persa. Chi ancora ha uno stipendietto, di domenica lascia il paese, per la città, pardon! per la citta-mercato. Il figlioletto sul carrello e via per scaffali, a divertirsi. Poi un intruglio e pizzetta da Mc Donald e la sera a casa davanti alla TV. E tu che fai il tragitto contrario, in paese trovi vie deserte e paesi morti. Neanche un vecchio per chiacchierare, come dice la canzone.
Mai la Sardegna è stata così. E i professori in giunta o la giunta dei professori, eletti non dalla gente, ma dalla loro presunzione di poter governare senza popolo, sono la faccia farsesca di questa tragedia. Antioco il medico africano, per stare col popolo, è diventato martire, loro pensano di poter risolvere i problemi allontanandosene. Venduto, vendesi, da vendere. E poi?
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