Massimo Villone, Il Manifesto
Spetta alla sinistra avanzare progetti alternativi (se ne ha). Ai giuristi il compito di difendere la Costituzione dai tentativi dei governi di limitare i poteri del parlamento.
L’ultima e definitiva lapide sulla riforma del senato l’ha messa Calderoli, già padre del Porcellum, e ora del Merdinellum. A quanto pare, proprio non gli riesce di fare un salto di qualità. Nella cattiva politica di un tempo, un relatore avrebbe piuttosto dato le dimissioni. Evviva il cambiamento.
Mentre il padre certificava alla storia il giudizio sulla sua prole, altrove si chiariva la vera posta in gioco. Nella riunione dei banchieri centrali a Jackson Hole il 22 agosto, si è discusso di mercato del lavoro. Draghi, per il quale Renzi ha espresso apprezzamento e condivisione, ha ribadito la sua pressante richiesta di riforme strutturali. Quali? In sintesi, la filosofia della riforma auspicata è questa:
dalla crisi si esce rimettendo i diritti dei lavoratori al mercato. Ogni tutela è sinonimo di dannosa rigidità.
È ad esempio illuminante il passaggio del discorso nel quale Draghi traccia un parallelo tra Spagna e Irlanda. Quest’ultimo paese avrebbe meglio contrastato la crescita della disoccupazione consentendo — tra l’altro — una più ampia possibilità di comprimere i salari (in inglese elegante, downward wage adjustment) sin dal 2008. In breve, lavorare affamati. L’Italia possiamo vederla in trasparenza dietro la Spagna. Persino la Yellen, capo della Federal Reserve USA, sembra più attenta ai risvolti sociali, quando nello stesso simposio si chiede se la crisi non abbia prodotto danni strutturali sul mercato del lavoro, e indica nel sottoimpiego un elemento di perdurante rischio per l’economia statunitense.
Rimettere i diritti del lavoratore al mercato non significa solo cancellare di colpo più di un secolo di storia, ma anche scardinare in larga misura l’architettura della prima parte della Costituzione. Non spetta a Draghi e alla BCE verificare se, in che misura e con quali modalità un downward wage adjustment sia compatibile con gli artt. 35, 36 e 37 della Costituzione italiana. Né spetta a loro valutare quali effetti collaterali un indebolimento delle garanzie per il lavoro comporterebbe per il diritto di formare una famiglia, di avere dei figli, o una casa. O ancora per l’istruzione o la salute. Ma a chi fa politica in Italia spetta, eccome.
Preoccupano consensi e plausi acriticamente espressi. Soprattutto perché in prospettiva l’attacco alla parte I della Costituzione può non venire solo da qui.
Non tanto per i rumors sulle pensioni, per i quali vogliamo al momento credere alle smentite governative, quanto per i venti di guerra che vengono dal Mediterraneo.
Alfano comunica che riferirà in parlamento sul califfato Isis, ma che non dirà nulla di italiani che abbiano aderito alle formazioni armate, come è accaduto in GB. Forse si vuole prevenire un effetto di imitazione. Ma la formula utilizzata, mancando una smentita netta, fa pensare che italiani possono ben esservi. E rende realistico e attuale il timore di trovarci con il terrorismo in casa.
Se questo scenario dovesse consolidarsi, sarebbe facile prevedere nuove tensioni sulla prima parte della Costituzione. Non sui rapporti economici e sui nuovi diritti, tipicamente introdotti nelle costituzioni del secondo dopoguerra, ma su diritti e libertà che ritenevamo ormai definitivamente scritti nel costituzionalismo moderno dalla rivoluzione francese in poi, dalla libertà personale al diritto di difesa. Gli Stati Uniti ne hanno di recente fatto l’esperienza con il Patriot Act. E possiamo per noi ricordare – in forma minore – gli anni delle Brigate rosse.
Stiamo dunque vivendo una fase in cui si intravedono, in atto o in prospettiva, rischi per tutto il tessuto di libertà e diritti, vecchi e nuovi. Se ne può uscire in due modi: con più democrazia, o meno democrazia. E in questo possono trovare spiegazione riforme apparentemente insensate.
La storia dimostra che sono i parlamenti, e non i governi, a dare voce e vita ai diritti e alle libertà dei cittadini. Purché, ovviamente, siano rappresentativi. È questa loro peculiare natura che li legittima a tale compito, formalmente e sostanzialmente. Comprimere la rappresentatività del parlamento significa indebolire il primo difensore istituzionale di diritti e libertà. Ed ecco che, tra liste bloccate, camere non elettive, e dominanza degli esecutivi sui lavori parlamentari, il cerchio si chiude. È la risposta di chi vuole affrontare la crisi con meno democrazia. E non vale come smentita il richiamo di Calderoli al referendum sul modello svizzero, peraltro anche tecnicamente inesatto e comunque rinviato, quanto a condizioni ed effetti, a una successiva e diversa legge costituzionale (art. 71, u. co, testo aula).
Le crisi ci sono, e non possiamo ignorarle. Spetta alla sinistra – che vede contestata la sua stessa ragion d’essere — avanzare progetti alternativi, se ne ha. Il pericolo è la mancanza di idee più che l’arrogante giovanilismo di Renzi. Al costituzionalista spetta ribadire che il cuore di ogni costituzione è nelle libertà e nei diritti. Ad essi deve rimanere servente l’organizzazione dei poteri, e l’asse principale di ogni indirizzo politico. Questo non dovrebbe mai essere dimenticato dai governati, e in specie dai governanti. Diversamente, si può solo entrare di diritto nel club della concezione escrementizia delle istituzioni.
(25.8.2014)
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