Gianfranco Sabattini
A fronte del crollo dell’apparato industriale italiano e sardo, si può pensare all’agricoltura per rilanciare l’occupazione? Ecco sul tema una riflessione di Gianfranco Sabattini, autorevole economista dell’Ateneo cagliaritano.
La politica agricola comune (PAC), nata con il Trattato di Roma del 1957, è stata e continua ad essere una leva importante del processo di integrazione europea. La politica di sviluppo rurale dell’UE si è continuamente evoluta negli anni, per rispondere alle sfide emergenti nelle zone agricole dei Paesi aderenti al Trattato.
Sin dall’origine, la PAC ha indicato gli obiettivi che dovevano essere perseguiti, per rimuovere le disparità strutturali esistenti fra i sistemi agricoli dei Paesi membri, con indirizzi di “policy” e azioni comuni. A livello di principio, è stato da subito sottolineato l’interesse comunitario per quella che sarebbe diventata la politica delle strutture agrarie (Primo pilastro) e, più tardi, della politica di sviluppo rurale (Secondo pilastro).
Le politiche d’ammodernamento strutturale dell’agricoltura avrebbero dovuto essere indirizzate all’attivazione, nel lungo periodo, di grandi processi di cambiamento del settore agricolo, nella prospettiva di uno sviluppo economico complessivo. La politica dei prezzi e dei mercati, al contrario, avrebbe dovuto essere concepita come intervento di natura meramente congiunturale e di breve termine. Quest’ultima, però, ha preso subito il sopravvento, divenendo l’”hard core” della PAC, in quanto ha assorbito per un lungo periodo di tempo gran parte delle risorse destinate al finanziamento della politica agricola comune.
Una politica di riforma della PAC ha preso il via solo a partire dall’inizio degli anni Novanta; dopo i molti tentativi di cambiarne l’orientamento, compiuti a partire dal 1985; è solo dopo il 1992 che essa ha subito un processo di radicale riformulazione, culminato con l’adozione, prima, dell’Agenda 2000 (con cui sono stati fissati gli obiettivi per la realizzazione di un nuovo modello agricolo europeo) e, successivamente, della “riforma Fischler” (con cui sono state individuate nuove aree di intervento, attraverso specifiche misure e significative modifiche di quelle già esistenti, come ad esempio quella che era stata adottata per il rafforzamento dell’insediamento dei giovani agricoltori).
Il processo di riforma più recente, che ha aggiornato ulteriormente la politica agricola comune dell’UE, è stato completato nel dicembre 2013, con l’approvazione degli atti legislativi di base per il periodo 2014-2020. In linea con la strategia “Europa 2020”, è stato deciso di migliorare la competitività del settore agricolo e forestale, di rafforzare i legami tra l’attività primaria e l’ambiente, di migliorare la qualità della vita nelle aree rurali, di dare impulso alla cooperazione e all’innovazione e di incentivare la diversificazione dell’economia nelle comunità rurali.
In tal modo, l’asse portante della nuova politica agricola comune ha cessato di identificarsi in un sostegno generico e non selettivo al settore primario, per divenire un insieme di interventi che devono risultare coerenti con l’urgenza di promuovere un riposizionamento competitivo del settore stesso, attraverso lo sfruttamento di complementarietà e connessioni dell’attività agricola in ambito economico, ambientale e culturale, per il sostegno dei livelli occupazionali.
E’ ancora presto per poter valutare appieno gli esiti dell’avvio della nuova PAC a livello delle singole regioni; essi dipenderanno dalle condizioni esistenti in fatto di colture prevalenti, dagli ordinamenti colturali esistenti, dalle dimensioni aziendali, dal carico demografico gravante sulla aree agricole e dall’esistenza di connessioni tra il settore primario e gli altri settori, oltre che dall’esistenza di meccanismi istituzionali che possono promuovere la partecipazione degli enti e degli attori locali alla determinazione degli obiettivi da perseguire.
Riguardo alla possibilità di valutare, in campo occupazionale, gli esiti connessi all’attuazione di una politica d’intervento conforme al Secondo pilastro della PAC possono essere utilizzate, per il momento, le esperienze di quelle regioni che, limitatamente al recente passato, hanno orientato, anche se solo in parte, le risorse disponibili nel senso di un sostegno dello sviluppo rurale secondo gli orientamenti del Secondo pilastro.
Di recente, uno studio di Ivan Etzo, Antonella Mandarino e Paolo Mattana, dal titolo “Il ‘Secondo Pilastro’ della PAC nel ciclo di programmazione 2000-2006. L’efficacia sull’occupazione in agricoltura per il caso dei comuni della Sardegna”, pubblicato sul numero 3/2013 della rivista “Politica Economica”, ha messo in rilevo che, pur avendo l’Isola faticato “a riconoscersi appieno nelle opportunità offerte dalla nuova impostazione” della PAC e pur avendo prevalentemente destinato le risorse stanziate per il settore primario nell’alveo del suo riposizionamento competitivo e limitato quelle destinate alla diversificazione delle produzioni, la politica agricola regionale, nel ciclo di programmazione 2000-2006, attuata in conformità dei Regolamenti comunitari, ha avuto apprezzabili effetti sull’economia dell’Isola, soprattutto sull’occupazione.
In particolare, i tre ricercatori hanno valutato gli esiti di efficacia degli interventi effettuati in conformità alle direttive del Secondo pilastro della PAC e, dunque, la “capacità delle imprese agricole di mantenere e possibilmente incrementare la propria base occupazionale diretta”. Utilizzando un modello previsionale econometrico, essi hanno stimato un’approssimazione dei riflessi diretti della “policy” sull’occupazione nel settore agricolo e, ipotizzando di “tollerare un grado di approssimazione elevato”, hanno anche valutato che il Piano di Sviluppo Rurale della Sardegna per il periodo 2000-2006, cofinanziato coi fondi Feoga comunitari e con altri fondi, ha favorito un incremento occupazionale pari a 10.842 “unità di lavoro dipendente equivalente”; l’incremento è stato calcolato riducendo il valore unitario delle posizioni lavorative a tempo parziale in posizioni equivalenti a tempo pieno, sulla base della convenzione che un’unità di lavoro a tempo pieno corrisponde a 280 giornate lavorative annue.
Il risultato non è trascurabile, se si considera che è riferito ad un periodo pre-crisi; sarà interessante estendere le stime al periodo successivo, per verificare se una politica agricola “calibrata” rispetto alle condizioni delle singole regioni meridionali, secondo le direttive del Secondo pilastro della PAC, può rappresentare una reale alternativa alla politica industriale sinora privilegiata, i cui esiti sono stati, per tutte le regioni, fallimentari sul piano dell’incremento del reddito prodotto e, soprattutto, su quello dell’occupazione.
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