E’ opportuno celebrare “la Vittoria”?

16 Novembre 2008
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Gianfranco Sabattini

In occasione della ricorrenza del 4 novembre si sono riaperte le polemiche sull’opportunità di celebrare la “Vittoria”, riportata nella Grande Guerra del 1914-1918 dallo schieramento delle potenze dell’intesa, a fare parte della quale non senza qualche “giro di valzer” vi era anche l’Italia, contro lo schieramento delle potenze degli imperi centrali. Molti opinionisti, soprattutto quelli schierati a sinistra (valga il caso di Piero Sansonetti, direttore di “Liberazione”, che, condividendo le posizioni interessate di ispirazione cattolica di “PeaceLink”, ha inteso dissociarsi dalla celebrazione dell’”unitile strage”, quale sarebbe stata appunto la Grande Guerra) sono del parere che sarebbe opportuno cessare di celebrare quella data, in quanto, non solo rappresenterebbe il punto terminale di un avvenimento che avrebbe causato un immane massacro di vite umane (solo l’Italia ha perso 600.000 uomini) che avrebbe avvelenato, sul piano dei rapporti sociali, l’intero “secolo breve” appena trascorso; ma anche perché rappresenterebbe una celebrazione militarista della guerra in sé e per sé considerata.
Molte sono le ragioni che oggi giustificano una opposizione totale alla guerra, intesa come “igiene del mondo” o come “levatrice della storia”; ma molte sono anche le ragioni che rifiutano un’opposizione aprioristica alla guerra quando essa appaia e sia percepita come l’estremo rimedio a situazioni che, sul piano dei rapporti tra i gruppi sociali all’interno dei singoli stati o sul piano dei rapporti tra gli stati a livello internazionale, impediscono la democrazia, la libertà e l’equità distributiva in quanto frustrate dalle posizioni dominanti di alcuni gruppi o di alcuni stati.
E’ ormai largamente assodato il fatto che la Grande Guerra sia stata l’esito di una situazione, lentamente maturata a cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, che ha visto tutte le potenze europee allineate nei due schieramenti opposti dotarsi di piani per dare inizio alle ostilità nel momento che fosse sembrato loro più opportuno e che solo casualmente, per via dell’incidente di Sarajevo, nell’estate del 1914, sono iniziate per iniziativa di Austria e Germania. L’avvio delle operazioni belliche è avvenuto tra le fanfare, nell’illusione che il conflitto sarebbe durato pochi mesi, con conseguente ridimensionamento delle posizioni di dominio delle tradizionali potenze europee e l’affermazione di un nuovo ordine mondiale fondato su nuovi equilibri. Invece, la guerra è durata dal 1914 al 1918 e le sue conseguenze, a livello di singoli stati ed a livello internazionale, sono state uno sconvolgimento generalizzato delle attese. A livello mondiale, ha determinato tra l’altro la fine del ciclo dominante dell’economia inglese ed ha dato inizio al primo ciclo dominante dell’economia americana, mentre sul piano interno ha causato una mobilitazione delle risorse materiali ed umane mai sperimentata nel passato. La vittoria è andata allo schieramento che è stato in grado di fornire agli eserciti contrapposti la maggior quantità di mezzi ed il maggior numero di uomini; ma, all’interno di tutti gli stati (vincitori e vinti), le tensioni sociali che sono lentamente emerse, anche a causa dell’assenza di un esteso stato sociale sul tipo di quello che si affermerà solo successivamente, sono valse ad originare, anche se ad un più basso livello di intensità, la prosecuzione di una guerra intestina, che non ha tardato a manifestare i tre aspetti che Claudio Pavone, con riferimento a quanto accaduto durante la guerra di Resistenza, ha qualificato rispettivamente come “guerra patriottica”, “guerra civile” e “guerra di classe o sociale”. Con riferimento all’Italia, è difficile non rinvenire, anche allora, nell’arco di tempo compreso tra la disfatta di Caporetto e l’avvento della dittatura fascista, quanto è accaduto nell’arco di tempo 1943-1945, ovvero l’impegno patriottico di quanti avevano sopportato il maggior costo della mobilitazione generale a rivendicare la riconduzione all’Italia dei territori irredenti (Trento e Trieste), liberandoli dalle potenze che sino ad allora avevano preteso di dominarli attraverso rigide gerarchie sociali sotto la guida di monarchi assoluti e di burocrazie nobiliari e militari; ma anche l’impegno civile per rivendicare a vantaggio dell’l’intero paese l’introduzione del metodo democratico nell’assunzione delle decisioni sociali ed a rompere le rigidità nobiliari che avevano sino ad allora impedito una sempre più larga partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica e l’impegno sociale per rivendicare un’equità distributiva che ponesse termine all’esclusivismo ed al privilegio con cui i vantaggi seguiti al processo di unificazione del paese si erano distribuiti tra le diverse classi sociali.
E’ vero che, sia all’impegno patriottico, che a quello civile e sociale non hanno corrisposto gli esiti sperati. Ciò, perché le potenze vincitrici hanno preteso di regolare, come ha affermato J.M. Keynes, i rapporti tra gli stati più direttamente coinvolti nella Grande Guerra “senza nobiltà, senza moralità, senza intelletto”, per cui sono stati inevitabili, nel decennio successivo alla fine del conflitto, forti rivolgimenti a livello internazionale che hanno causato, come in Italia, la frustrazione delle attese di quanti erano stati chiamati a sopportare il costo del conflitto. Sarà, infatti, necessario l’interludio di un ventennio ed un’altra guerra mondiale perché si affermassero le condizioni compatibili con il completo ed equilibrato perseguimento degli obiettivi del triplice impegno sul piano patriottico, su quello civile e su quello sociale, propri del periodo immediatamente successivo al crollo di Caporetto.
Se così stanno le cose, si deve continuare a festeggiare il 4 novembre o vi si deve porre termine solo perché la ricorrenza è considerata, da qualche parte interessata, vuota retorica militarista? Ogni italiano dovrebbe rispettare, anche in festa, la celebrazione della fine della Grande Guerra, non solo per ricordare quanti vi hanno perso la vita, ma anche perché il loro sacrificio ha segnato il compimento del processo di unificazione del paese e l’inizio del processo della sua democratizzazione e modernizzazione. Ovviamente, il 4 novembre non è la “madre” di tutte le feste nazionali italiane; ma è sicuramente una data che, assieme al 20 settembre 1980, al 25 aprile 1945 ed al 2 giugno 1946, segna una delle tappe della nascita e della crescita dell’Italia moderna.

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