Gonario Francesco Sedda
Che l’Italia non sia un Paese per i giovani, ma sia fatto per i vecchi è un luogo comune della propaganda orchestrata dagli intellettuali organici del potere. Viene riproposto uno scontro tra generazioni ingigantito dentro una costruzione ideologica concepita da “menti mature” (e persino da “grandi vecchi”) nella quale rimane invischiata una parte non trascurabile degli stessi giovani. Ma come mi è capitato di scrivere altre volte, questo tipo di affermazioni dicono meno di quel che sembra. Il loro punto debole sta nel fatto che le parole vengono usate in chiave evocativa: alludono a qualcosa di vero, ma per andare oltre verso conclusioni che non hanno un rapporto strettamente consequenziale con quel nucleo di verità a cui alludono.
Così, se si pensa che in Italia nel 2014 il tasso di disoccupazione rimane sopra il 40% per i giovani tra i 15 e i 24 anni e che sono tra i due e tre milioni i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano, l’affermazione che l’Italia non sia un Paese per i giovani coglie un nucleo di verità. Ma se a questa insopportabile condizione dei giovani viene contrapposto il mondo dei “vecchi garantiti” e se addirittura si indica come causa della miseria giovanile i privilegi dei vecchi, allora i conti non tornano.
Intanto occupato (a tempo determinato o indeterminato) non coincide con vecchio e viceversa disoccupato non coincide con giovane. Quella parte dei giovani che trovano un lavoro a tempo indeterminato restano giovani (non diventano vecchi) e quella parte dei vecchi che perdono il lavoro e diventano precari non per questo cessano di essere vecchi (non diventano giovani).
Costruendo e esaltando una contrapposizione tra giovani e vecchi, gli ideologi del blocco dominante nascondono le vere responsabilità di chi ha il potere di creare occupazione e di governare la disoccupazione. I lavoratori non creano occupazione: qualunque sia il loro stato contrattuale (schiavi, precari, stabili, privilegiati e non), qualunque sia il loro grado di sindacalizzazione e qualunque sia la qualità del loro lavoro essi non assumono altri lavoratori. Sono le imprese e le istituzioni che creano occupazione e le cause delle crisi vanno cercate nel mondo delle imprese e delle istituzioni. E poiché i capitalisti chiamano capitalistico quel mondo, è nel capitalismo che si devono cercare le cause delle crisi.
Ma cosa vuol dire essere giovane o vecchio? Troppo spesso il confine tra l’uno e l’altro scompare e le parole assumono un generico colore evocativo. Tuttavia un riferimento sembra necessario per evitare che nelle discussioni si parli di cipolle come fossero patate.
L’Istat distingue tre fasce principali di età (dentro le quali si possono fare poi altre distinzioni): 0-14 anni, 15-64 anni, 65 anni e oltre. La fascia centrale rappresenta la parte della popolazione in età lavorativa (attiva di fatto o potenzialmente) e le altre due la parte inattiva. Sulla base di questa tripartizione vengono calcolati l’Indice di vecchiaia, che rappresenta il rapporto percentuale tra il numero degli ultrasessantacinquenni ed il numero dei giovani fino ai 14 anni; e l’Indice di dipendenza strutturale, che rappresenta il carico sociale ed economico della popolazione non attiva (giovani fino ai 14 anni e ultrasessantacinquenni) su quella attiva (15-64 anni).
In questo quadro è possibile indicare con ragionevole approssimazione un’età in cui si finisce di essere “giovani” per passare alla maturità e poi all’anzianità e alla vecchiaia?
Bisognerà arginare la tendenza a una estensione “politica” del tempo della giovinezza in forza del fatto che se non lavori o non campi pur lavorando, allora sei “ancora” un giovane in cerca di lavoro o un precario invece che un adulto disoccupato o precario.
Garanzia Giovani (Youth Guarantee), il Piano Europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile, si rivolge ai giovani tra i 15 e i 29 anni fino al compimento dei 30.
Coldiretti Giovani riunisce tutti i soci tra i 18 e i 30 anni.
Il portale Giovane Impresa si rivolge a giovani tra i 18 ed i 35 anni.
In Toscana la Legge sull’imprenditoria giovanile e femminile si rivolge a giovani tra i 18 anni (compiuti) e i 40 (non compiuti).
Più in generale capita di sentire o leggere la notizia che è stato investito sulle strisce pedonali un “giovane” di … 48 anni!
Ma la giovinezza estesa fino a 40 anni sembra proprio esagerata. Basta infatti ricordare che nel 2013 l’età media della popolazione italiana era di 43,5 anni. La giovinezza “toscana” arriva dunque poco sotto l’età media degli italiani. Inoltre è anche troppo lontana dall’estremo inferiore della fascia della popolazione attiva che è 15 anni con una distanza di 25.
Il limite di 29 anni fino al compimento dei 30 del Piano europeo sembra più ragionevole, ma non senza una qualche criticità. Vi è infatti da considerare il raggiungimento del massimo contributivo (42 anni) e dell’età pensionabile (ormai oltre i 64 anni). Chi fosse ancora “giovane” disoccupato a 30 anni dovrebbe lavorare fino a 72 per raggiungere il massimo contributivo e la miglior pensione. Altrimenti avrà anche una cattiva vecchiaia dopo aver avuto una cattiva giovinezza. Per me un giovane che si laurea a 25 anni e trova lavoro a 30 è un “adulto rimasto disoccupato per cinque anni” che ha ragione di prendersela non con i vecchi lavoratori, ma con chi può creare occupazione e tuttavia non ha convenienza o non è in grado di crearla. Anche chi comincia a lavorare a 25 anni è già al limite critico perché per raggiungere il massimo contributivo e la miglior pensione deve lavorare sicuramente fino a 67 anni “qualsiasi sia il suo lavoro”.
A questo punto viene fuori il carattere truffaldino anche di un’altra vittoria ottenuta dal blocco dominante facendo leva sull’opposizione generazionale giovani-vecchi: il fortissimo depotenziamento (o forse lo smantellamento) della previdenza a carattere universalistico e a gestione pubblica in favore di una previdenza a capitalizzazione individuale e a gestione in parte pubblica (a costi più bassi) e in parte privatistica (a costi più alti e profittevole soprattutto per il mondo assicurativo).
Alla base di quella opposizione generazionale si è messa (e, quando si torna sull’argomento, ancora si mette) un’idea inconsistente e strampalata: l’idea che i giovani resteranno giovani e non diventeranno vecchi e che i vecchi sono sempre stati vecchi e non sono mai stati giovani. Quindi in questo schema i vecchi sono diventati (e diventano) un peso sulle spalle dei giovani “incomprensibilmente generosi” rispetto alla possibilità di “capitalizzare” le proprie risorse solo per sé stessi, liberamente e in modo personalizzato.
Come se nella scena tutto stesse fermo: i giovani che sopportano il peso “sarebbero sempre gli stessi” e anche i vecchi che sono di peso “sarebbero sempre gli stessi”. Bella operazione ideologica, bel trucco! Ma nella realtà tutto si muove: i giovani di oggi saranno i vecchi di domani e i vecchi di oggi sono stati i giovani di ieri.
Per questo le generazioni si possono rapportare in termini di “mutualità” e non in termini di peso (carico, gravame) dell’una rispetto all’altra.
Eppure l’idea “strampalata” è passata. Sotto una sproporzionata potenza di fuoco dell’apparato ideologico del blocco dominante quell’idea è diventata “senso comune” e poi azione politica vincente.
Non è vero che le bugie hanno sempre le gambe corte. Come diceva Eduardo De Filippo, vi sono bugie che hanno le gambe lunghe. Ve ne sono che corrono da quando è nato il mondo: sono quelle che piacciono al padrone. Sono sempre bugie con le gambe corte i discorsi contro il padrone: a queste lui «spezza ’e gamme e dice ca so’ ccorte».
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