Francesco Cocco
L’identità si fonda anzitutto sulla conoscenza della propria storia. Nei mesi scorsi, ricordando i fatti di Buggerru di un secolo fa, ci eravamo riproposti di tornare su quell’ evento che tanta importanza ebbe nella storia del movimento operaio italiano. Vi ritorniamo con questo articolo di Francesco Cocco, che pone al centro dell’attenzione i riflessi che esso ebbe sulla Cagliari dei primi del Novecento.
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La calda estate del 1904, come in questo afoso settembre del 2014, sembrava non aver termine. Per chi non poteva concedersi il refrigerio del mare, qualche consolazione veniva dal fresco delle serate settembrine, che avevano contribuito a riportare la piena animazione nella nuova terrazza del Bastione di San Remy, allietate dai concerti della banda del 42° Reggimento di Fanteria.
La stagione culturale e mondana cominciava lentamente a riprendere il normale svolgimento: il Caffè Concerto Elvetico annunciava su L’Unione del 2 settembre “tutte le sere spettacolo dalle 8 e mezzo alle 11 e mezzo”; così l’ ultima pagina dello stesso quotidiano comunicava l’apertura della stagione termale a Sardara e, a cura del Circolo filologico, una gita d’istruzione a Tunisi aperta a tutte le persone interessate.
In questo clima di apparente serenità, quando la sera di Domenica 4 settembre cominciò a diffondersi la voce dei morti di Buggerru si comprese subito che la tensione sociale era destinata a salire. In Città, a partire dagli inizi del secolo, non erano mancati scioperi e manifestazioni. Ne erano stati protagonisti i lavoratori delle Saline, gli scalpellini della Ditta Barbera, i dipendenti della Manifattutra Tabacchi, gli operai dell’edilizia. Ma lo svolgimento, tutto sommato, pacifico e le modalità con cui si era concluso lo sciopero di Montevecchio del 1903, il primo grande sciopero moderno svoltosi nell’ Isola, sembravano far intravedere una nuova conflittualità sociale in cui alla vecchia jacquerie si erano sostituite l’organizzazione ed il dialogo tra le parti.
La preoccupante novità consisteva nel fatto che durante lo sciopero di Buggerru la truppa aveva sparato sulla folla e Felice Littera, Giovanni Pilloni, Salvatore Montixi erano stati colpiti a morte. Non era questo un episodio isolato in Italia: dagli inizi del secolo si potevano contare undici conflitti a fuoco tra scioperanti ed esercito con più di quaranta morti. Erano fatti che sembravano estranei alla Sardegna ed ora quei morti e le decine di feriti davano il chiaro segnale di un clima mutato.
Anche a Cagliari l’eccidio poteva essere in agguato. Non più roccaforte militare e burocratica staccata dal più generale contesto sociale del territorio, era facile che qui si ripetessero i moti di altre parti o potessero verificarsene dei nuovi capaci d’infiammare tutta la Sardegna.
L’Unione Sarda, schierata sulle posizioni dell’on. Francesco Cocco-Ortu, ministro di grazia e giustizia sino a novembre del 1903 nel governo Zanardelli, fece di tutto per minimizzare quei drammatici avvenimenti. Poche notizie confinate nelle pagine interne. Il 4 settembre, in un piccolo trafiletto si comunicava che “stante i malumori sorti tra i minatori, sono partiti per Buggerru 130 uomini del 42° Reggimento di Fanteria al comando del capitano Bernardone cav. Luigi”. Poi il 6 settembre, in una sola colonna, confinata in seconda pagina, la notizia di 3 minatori caduti e di 5 feriti (anzichè il numero effettivo di 20). Veniva inoltre annunciata una sottoscrizione a favore delle famiglie delle vittime promossa dall’ “Unione radicale” e dalla sezione
cagliaritana del P.S.I. Questa tendenza a minimizzare non cambiò neppure quando 10 giorni dopo, in segno di protesta per l’eccidio nel centro mineraio sardo, venne proclamato a Milano il primo sciopero generale nazionale.
L’atteggiamento de L’Unione esprimeva chiaramente le posizione e gli interessi di ristretti, pur se dominanti, gruppi sociali. Ben diversa la reazione nel mondo del lavoro e dei nascenti partiti di massa. Si tenne a Cagliari un affollato comizio, promosso da socialisti, repubblicani, radicali. Il Fascio giovanile repubblicano indisse un’ assemblea giovanile. Sottoscrizioni a favore delle famiglie dei morti e dei feriti vennero promosse dai socialisti e dai repubblicani. A reagire furono,quindi, le forze politiche che meno di due anni più tardi guidarono il grande moto di popolo che infiammò prima Cagliari e poi l’intera Isola.
Quelli indicati sono alcuni elementi di un mosaico da tenere ben presente se vogliamo comprendere la più importante sommossa popolare avvenuta a Cagliari due anni dopo.
Poichè stiamo parlando di fatti tra i più importanti della storia moderna della Città , pare opportuno uno sguardo alla più complessiva e contradditoria realtà sociale di quella che sino a sessant’anni prima era stata la capitale del Regno di Sardegna.
Cagliari agli inizi del Novecento, dopo la crisi seguita al fallimento della Banca Agricola (1887), viveva una fase di ripresa economica. A favorirla era stato il programma di opere pubbliche divenuto possibile grazie alla vittoria da parte del Comune della annosa causa contro l’ Erario statale, che aveva avocato a sè entrate spettanti alla municipalità. A fine secolo erano entrati nelle casse comunali oltre 3 milioni di lire (esattamente £ 3.371.346) ripartiti negli esercizi finanziari dal 1896 al 1900. La cifra era favolosa per quei tempi, ed infatti consentì la realizzazione di alcuna delle più significative opere che sono alla base di gran parte del decoro urbano che il centro storico tuttora presenta: nuovo palazzo civico di via Roma, scalinata monumentale del Bastione di S. Remy, edifici scolastici “S. Satta”, “Santa Caterina”, “Sant’ Avendrace”.
E di una bella città Cagliari andava assumendo tutti i connotati . Dai 44.000 abitanti del 1896 , agli inizi del secondo mandato amministrativo del Bacaredda, era passata ai 56.000 abitanti del 1906, l’anno della grande sommossa. Andavano sorgendo nuovi servizi e strutture urbane: due teatri, otto alberghi, diciotto caffè, tre caffè-concerto. Il servizio del gas, oltre che per la pubblica illuminazione (826 punti luce), veniva erogato per i vari servizi domestici. Grande attenzione e mezzi venivano dedicati al verde pubblico, secondo le più avanzate tendendenze urbanistiche. Particolarmente vivace anche la vita poltica e culturale. Si stampavano numerose riviste e quotidiani: la socialista “Volontà”, fondata dal giovane dirigente socialista Jago Siotto; il quotidiano della Curia “La Sardegna Cattolica”; il periodico “Il Lavoratore”, espressione dei circoli cattolici più popolari; il quotidiano “L’Unione Sarda”; la rivista “La Lega”, organo del sindacato. Nel 1905, fondato dall avv. Umberto Cao, uscì il quotidiano “Il Paese”, schierato su posizioni radicali. Il nuovo giornale ebbe un ruolo determinante nei fatti di maggio dell’anno successivo.
La ripresa economica degli inizi del Novecento contribuiva a creare numerose piccole e medie imprese che davano una nuova fisionomia al tessuto economico e sociale cittadino. Oltre alle maestranze direttamente occupate nei cantieri, vi erano sette stabilimenti di materiali per l’ edilizia (laterizi, pianelle, serramenti), quattro mobilifici, quattro aziende nell’ impiantistica idraulica e del gas (oltre 80 addetti). Rilevante l’ industria molitaria e dei pastifici (oltre 150 dipendenti). La maggior concentrazione operaia era però nel settore metalmeccanico con oltre 300 addetti.
La Città cominciava a darsi un’ efficiente organizzazione dei trasporti per il collegamento sia tra i diversi quartieri, sia con i paesi di Pirri, Monserrato, Quartucciu, Selargius, Quartu. Per il collegamento con questi centri, l’industriale molitorio Luigi Merello aveva promosso la realizzazione di una linea tranviaria a vapore.
L’innovazione si rivelò subito di primaria importanza per l’economia del Campidano di Cagliari, ma ne derivò una gravissima crisi nel vecchio assetto dei trasporti: vennero gettati sul lastrico centinaia di carrettieri e scaricatori, creando un’ altissima tensione che ebbe come conseguenza l’incendio di numerose corrozze tramviarie e la distruzione di molti impianti di supporto durante i moti del 1906.
.Insomma la Cagliari degli inizi del secolo progrediva in tutti i settori . Cominciava a perdere il vecchio carattere essenzialmente burocratico per assumere quello di una città mercantile e manifatturiera. Ne è una conferma il fatto che nel censimento del 1901 risultò addetto ad attività industriali il 19% della forza lavoro, salirà (segno di evidente espansione) al 23,5% in quello successivo del 1911.
Nel nuovo contesto cittadino vi erano però evidenti quanto gravi contraddizioni. Tra esse l’assoluta insufficienza di abitazioni per soddisfare la fame di alloggi dei ceti più disagiati. La situazione era talmente grave che, dopo anni di lunga coflittualità, il Consiglio comunale nel 1905 decise di promuovere un’ inchiesta presieduta dal consigliere Barrago. Venne accertato che su oltre 3500 abitazioni visitate oltre un terzo (1.169) era sotto il livello stradale, circa un quarto degli ambienti era inferiore ai 15 mq. ; in oltre 600 case il cesso era comune a più famiglie. Il 27% degli ambienti risultava senza alcuna presa di luce naturale. Si utilizzavano come abitazione le numerose grotte di Stampace e le cavità di Sant’Avendrace. Il risultato era che un abitante su quattro viveva in ambienti malsani. Una situazione che i cagliaritani più anziani ben conoscono per essersi ripetuta nell’immediato dopoguerra sino alla metà degli anni Cinquanta.
La drammatica situazione abitativa strideva nella coscienza dei ceti più disagiati con la destinazione prevalente dei fondi al nuovo palazzo civico ed al Bastione di S. Remy. E se per la prima opera vi era la giustificazione della ricerca di una nuova dimensione urbanistica della città, proiettandola verso il mare, l’altra appariva discutibile trovando le proprie ragioni essenzialemente in un nuovo decoro urbano in linea con i gusti del tempo, anche se il risultato finale sarà quello di “mascherare” una delle parti più belle della mura cittadine.
Per comprendere il clima esplosivo che nei primi anni del Novecento si andava delineando a Cagliari, oltre alla diffusa indigenza, alla grave situazione abitativa, alle pesanti condizioni di lovoro, vanno aggiunti il problema dei dazi di consumo e quello connesso all’alto costo della vita. Erano entrambi strettamente legati alla politica anninistrativa cittadina, di qui la loro centralità. Certo la Città viveva un’evidente stagione di progresso in tutti i settori, ma i sommovimenti popolari intervengono, com’ è insegnamento della storia, proprio nei momenti di crisi che seguono alle fasi di espansioni.
Il successo elettorale di “Casa Nuova” (la denominazione della lista elettorale guidata dal Bacaredda) era dovuto soprattutto alla reazione per i dissesti provocati dalla bancarotta del Ghiani-Mameli, che coinvolse oltre al fragile sistema economico cittadino anche le finanze comunali. Il Comune vi aveva depositato, e conseguentemente perso, ingenti somme. Fu così che la nuova Giunta si trovò a dover fronteggiare un grave deficit di bilancio. Durante la campagna elettorale il raggruppamento bacareddiano si era impegnato al risamento finanziario, inteso come momento della più generale questione morale. Sulla base di questo programma era giunto alla vittoria elettorale, e come conseguenza l’ amministrazione civica si trovò costretta ad aumentare i dazi di consumo su quasi tutte le voci. Per converso vennero diminuite le spese comunali incidendo in modo rilevante sulla già grave crisi occupativa.
Il carovita era questione che andava ben oltre i dazi comunali. Per risolverlo vi erano da affrontare molti problemi: dall’ organizzazione del mercato civico alla creazione di una rete distributiva che ostacolasse la formazione di cartelli e favorisse la concorrenza; dalla pressante richiesta d’ istituire un calmiere per i generi di più largo consumo all’ esigenza di evitare che la nuova possibilità di conservare le derrate alimentari (nuova fabbrica del ghiaccio) non si rivolgesse contro i consumatori, da sempre abituati ad acquisti con forti ribassi nelle ultime ore della mattinata. A questi problemi bisogna aggiungerne uno non percepibile dalla grande massa dei consumatori, non per questo meno incisivo. E’ quello della generale tendenza alla lievitazione dei prezzi che si ebbe all’inizio del secolo in Europa, ai cui mercati la Sardegna ormai tendeva sempre più a collegarsi. Nel generale clima di turbolenza e malessere che si andava delinendo, sullo sfondo esercitava un suo peso anche lo scontro tra il liberismo puro del Bacaredda (considerava positivo l’aumento dei prezzi come ineludibile effetto dell’apertura ai mercati: “perchè sono finiti i tempi di quando pelliti e mastrucati stavamo appollaiati sui nostri monti…..”) e chi chiedeva interventi dell’ amministrazione civica per salvaguardare i livelli di vita della popolazione più disagiata.
Quello del carovita divenne la questione centrale della vita cittadina tra il 1905 ed i primi mesi del 1906, l’elemento dominante della rivoluzione di maggio. Sarebbe però erroneo cercare di comprendere quegli avvenimenti senza tener conto della complessità ed interconnessione di fattori che sommariamente abbiamo cercato di rappresentare al lettore. Cagliari da poco più di mezzo secolo aveva cessato di essere la capitale nominale dell’ Isola per assumerne, ora che era semplice capoluogo di provincia, il ruolo effettivo. Aveva fine il suo antico isolamento per unirsi alla più realtà della Sardegna. Non più estranea a quel che accadeva nel territorio regionale, diventava sempre più centro propulsivo dell’azione politica e sociale.
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