Antonio Sciotto, Il Manifesto
L’“attacco” di Renzi all’articolo 18 risale a circa due settimane fa, quando il presidente del consiglio ha improvvisamente ritirato fuori – dopo mesi di relativa calma sull’argomento – il tema dei licenziamenti. Aveva fornito dei numeri, piuttosto dettagliati: «Il dibattito estivo sull’articolo 18 è un evergreen. I casi che vengono risolti sulla base dell’articolo 18 sono circa 40 mila e per l’80% finiscono con un accordo». Aggiungendo infine: «Dei restanti 8 mila casi, solo 3 mila circa vedono il lavoratore perdere. Quindi noi stiamo discutendo di un tema che riguarda 3 mila persone l’anno in un paese che ha 60 milioni di abitanti. Il problema quindi non è l’articolo 18, non lo è per me e non lo sarà».
Magari, verrebbe da dire. L’articolo 18 ha invece infiammato la politica, come sappiamo. Ma dove ha preso il premier quei dati? Cercando una verifica, abbiamo scoperto che in effetti non esiste un’anagrafe, una statistica che possa isolare le cause di lavoro per articolo 18. Per almeno due ragioni, come ci hanno spiegato l’Agi – Avvocati giuslavoristi italiani – e la Cgil.
L’avvocato Fabio Rusconi, presidente dell’Agi (associazione che riunisce sia gli avvocati che difendono le imprese che quelli dei lavoratori, quindi pienamente “bipartisan”), ci ha spiegato che «almeno fino a poco prima dell’estate non esisteva un codice identificativo per le cause di questo tipo, e quindi, a meno che non si sia provveduto negli ultimi due mesi, è impossibile avere una statistica». Serena Sorrentino, segretaria confederale della Cgil, ci ha confermato che anche per il sindacato è stato impossibile accedere a una statistica simile, «proprio per la mancanza di questo codice». E inoltre, seconda ragione, «perché molti archivi sono cartacei, non informatizzati, quindi non si può fare una raccolta centrale».
Ma perché non esiste un codice per questo tipo di cause, quando invece per esempio le separazioni e i divorzi ce l’hanno (e infatti le statistiche sono inserite sul sito del ministero della Giustizia)? La risposta è presto data: la legge Fornero, che nel 2012 ha non solo riformato sostanzialmente l’articolo 18, ma anche processualmente (istituendo un nuovo rito), si è “dimenticata” di assegnare un codice amministrativo ad hoc per i processi di questo genere. E così non si può scorporare nulla.
Rusconi, dell’Agi, dice comunque che i dati forniti dal presidente del consiglio sono «verosimili». «E dimostrano – aggiunge – che l’importanza del tema è più qualitativa, che quantitativa». Va ricordato infatti che i lavoratori dipendenti, in Italia, sono 22,5 milioni. E la platea a cui si applica, almeno teoricamente, l’articolo 18, è molto più ristretta: sono i dipendenti a tempo indeterminato delle imprese sopra i 15 addetti, siamo cioè sugli 8–9 milioni di persone.
L’Agi, insieme all’Anm (Associazione nazionale magistrati), ha tra l’altro chiesto al governo di abrogare il rito processuale della riforma Fornero, perché ha creato una serie di cavilli e pluralità di interpretazioni che allungano i processi, rendendoli quasi impossibili. Tanto che la gran parte dei lavoratori – non solo per queste complicazioni, ma soprattutto perché con il nuovo articolo 18 si ottiene molto meno facilmente il reintegro – opta per la conciliazione.
Sorrentino, della Cgil, ribadisce che «sarebbe utile avere un’anagrafe nazionale delle cause», e che il sindacato ha potuto ricostruire «solo delle tendenze, monitorando i tribunali delle città principali». «L’unico dato certo che abbiamo, nazionale – spiega – ce lo ha fornito l’Ordine degli avvocati, ma riguarda solo l’esito finale delle cause. Nel 2013 si sarebbero chiuse con l’articolo 18 applicato per il reintegro del lavoratore un numero di cause pari allo 0,032% del totale dei lavoratori dipendenti, ovvero di 22,5 milioni». Cioè, poco più di 7 mila casi. E va detto che nelle situazioni monitorate dal sindacato (che quindi non fanno statistica), i due terzi dei lavoratori optano per un indennizzo, rinunciando al reintegro.
Numeri, alla grossa, parecchio vicini a quelli forniti da Renzi: «Ma appunto – conclude Sorrentino – Se i dati sono così bassi, perché si afferma che questa tutela frena gli investimenti?».
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