Andrea Pubusa
Già in altra occasione ho detto perché il governo, prima con Monti, la Fornero e la Mercegaglia, oggi con Renzi, e sempre col concorso di Napolitano, vogliono abrogare l’art. 18. Perché sono disponibili a monetizzare, ma non a reintegrare? Perché il reingresso nel posto di lavoro, in fabbrica del lavoratore, dopo l’annullamento del licenziamentio, è la più micidiale e palese scornata dell’imprenditore, la prova che la Costituzione non si ferma ai cancelli della fabbrica, che anche l’imprenditore deve esercitare il proprio potere di direzione sui dipendenti con ragionevolezza e giustizia. La reintegrazione nel posto di lavoro per ordine dl giudice rafforza l’idea dei diritti nei lavoratori. E non solo. Anche nella società la notizia dell’esito vittorioso di una vertenza caratterizzata dal licenziamento (che sono spesso anche molto simboliche) diffonde l’idea che non esistono poteri incontrollati e che la democrazia permea anche la vita della comunità. La conseguenza è una maggior fiducia e disponibilità nella lotta e nella mobilitazion a difesa dei propri diritti.
Potrei citare molti fatti tratti dalla esprienza diretta. Ne cito solo uno. Agli inizi degli anni ‘80 un imprenditore rampante, noto nel territorio per avere atteggiamenti di poco rispetto per i dipendenti, in un sol colpo ne licenziò sei. Si era accorto che fra gli operai serpeggiava il malumore per le condizioni e i ritmi di lavoro. Con quell’atto d’imperio voleva spezzare in radice ogni velleità rivendicativa delle maestranze. Fui incaricato della difesa di quei giovani che disperavano di poter battere un padrone così arrogante e presuntuoso, munito di una autorevole difesa. Ma il licenziamento non era fondato su una giusta causa e così il giudice, in applicazione dell’art. 18, annullò i provvedimenti e ordinò all’imprenditore la reintegrazione. Ci fu l’appello, ma il giudice di secondo grado confermò la reintegra. I due gradi furono definiti in poco tempo (allora il rito del lavoto funzionava!). La decisione ebbe un effetto dirompente. Il reingresso in azienda dei lavoratori mostrò che il potere dell’imprenditore non può assumere caratteri arbitrari. Incoraggiò le loro rivendicazioni dentro e fuori la fabbrica. Anche nel paese, dove i lavoratori risiedevano, si diffuse una certa baldanza fra uomini e donne, che negli anni successivi diedero luogo a molte iniziative di movimento in difesa dei diritti, dell’ambiente della parità fra uomini e donne. Ci fu un fermento democratico, che portò alla formazione di una buona lista di sinistra alle comunali e si strappò perfino l’Amministrazione alla DC.
Ciò che i nemici dell’art. 18 vogliono eliminare è proprio questo effetto dell’applicazione della norma: l’idea che il padrone sia battibile, che il suo potere sia comunque disciplinato dalla legge e controllato dal giudice. Che la dignità dei lavoratori non è monetizzabbile. Una società autoritaria ha bisogno che l’idea dei diritti sia sradicata in fabbrica e nella società. E ancor prima nella testa delle classi subalterne. Che il padrone possa monetizzare il licenziamento ingiustificato rientra nella logica del mercato, ossia muove dal presupposto che chi ha i soldi aggiusta tutto, che l’acquisto della merce-lavoro, comprende anche il potere dell’imprenditore di disporre del destino sociale del lavoratore.
Questa sostanziale abrogazione dell’art. 18 progettata dal governo Renzi è una fuoriuscita grave dalla Costituzione, ora non più fondata sul lavoro. La Carta fondamentale viene di nuovo espunta dai luoghi di lavoro. Monti, prima Renzi oggi e sempre Napolitano ne portano una grave responsabilità. Per il Presidente della Repubblica che della Carta è il custode si tratta di un vero vulnus, di un atto eversivo che proclama il mercato in luogo del lavoro quale fondamento dell’ordinamento.
In un’epoca in cui si parla di fine delle ideologie l’aborgazione dell’art. 18 è una legge ideologica e di classe. Ecco perché dare battaglia.
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