“La vita buona nella società attiva” ovvero quanto ci vuole bene il ministro Sacconi

15 Novembre 2008
Nessun commento


Antonello Murgia

Il 25 luglio scorso il Ministro Sacconi ha diffuso un sedicente “libro verde sul futuro del modello sociale” dall’accattivante titolo di “La vita buona nella società attiva” e l’ha sottoposto all’attenzione di tutti con l’invito a dare un contributo al fine di pervenire ad un testo definitivo condiviso. Si potrebbe anche passare sopra l’irritualità del coinvolgimento delle parti sociali e dei vari soggetti istituzionali (Regioni, Comuni, etc.), trattati al pari di singoli cittadini ed invitati a spedire il loro compitino senza alcuna garanzia che esso venga tenuto in alcun conto, se non fosse che negli ultimi 2-3 anni è stato seguito un processo di concertazione culminato nel “Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili” e nella successiva Legge 24 dicembre 2007 n. 247, recante le relative norme di attuazione. Appare dunque evidente che il ministro ed il Governo, con il “libro verde”, non intendono invitare alla partecipazione, ma piuttosto favorire un percorso che, per la sua iniquità, è costretto ad evitarla o al più a relegarla al ruolo di un questuante petulante, negando sia la rappresentanza sociale che il ruolo delle autonomie locali. Il documento va avanti fra enunciati condivisibili, ma negati dalle proposte che ne seguono, e un uso talora un po’ maccheronico di terminologia inglese specialistica (ad es. “un riferimento nel benchmarking” o “benchmark di riferimento”, quando la parola inglese contiene già il termine “riferimento” al suo interno), che sembra quasi adottata con l’idea che meno se ne capisce e più il discorso sembra alto. Andando su questioni più sostanziali e rimandando al testo integrale per una valutazione più completa, vorrei proporre e commentare alcune parti della fatica del ministro. A pag. 9 si afferma: “Riscoprire la vocazione formativa dell’impresa può essere la risposta giusta e meno costosa rispetto a un sistema di formazione pubblica che non decolla e che non risponde alle esigenze della domanda di formazione da parte di lavoratori e imprese?”. La domanda retorica punta ad una istruzione non finalizzata a formare cittadini consapevoli dei propri diritti, ma piegata agli interessi delle imprese, povera di cultura generale e sbilanciata verso un avviamento al lavoro fatto di conoscenze tecniche, ma povero di capacità critica. In diversi punti del documento si enuncia la volontà di migliorare le condizioni dei cittadini per poi proporre soluzioni che hanno il chiaro obiettivo di trasformare i cittadini in sudditi. A pag. 15, parlando de “I servizi di cura per l’infanzia” si dice che “…occorre qualità e flessibilità e pieno utilizzo delle risorse pubbliche e private, anche valorizzando maggiormente le libere scelte delle famiglie italiane”. Cosa significa “valorizzando maggiormente le libere scelte delle famiglie italiane”? Perché il ministro avverte questa necessità in un settore, gli asili nido e le scuole materne, nel quale le strutture pubbliche italiane esprimono da decenni l’eccellenza nel mondo ed il cui difetto è di essere sottodimensionate rispetto alla domanda? In che modo aumentare l’interesse privato può migliorare, in questo settore, le prestazioni? Ancora a pag. 15: “È un Welfare che conserva un carattere universale, ma che ovviamente deve saper coniugare la caratteristica della universalità con quella della personalizzazione e anche della selezione dell’intervento”. La personalizzazione dell’intervento è sacrosanta perché in un sistema universale e solidaristico chiunque dà in proporzione alla capacità contributiva e prende in proporzione ai suoi bisogni. Ma il ministro annuncia di voler seguire questo caposaldo di società democratica per poi proporre l’esatto opposto: la personalizzazione è la somma dei tagli delle tutele pubbliche con la facoltà, per chi può permetterselo, di integrare mediante il ricorso a coperture assicurative private. Insomma, è una personalizzazione legata alle capacità economiche dei cittadini, non più solidaristica, ma egoistica: si riceve in proporzione non più ai bisogni, ma a quanto si è versato come premio assicurativo. In questa ottica vanno letti, infatti, “l’alleanza tra soggetti erogatori pubblici e privati” (pag. 18), la necessità di ridurre la spesa pubblica per pensioni e sanità (pag. 5: “peso eccessivo della spesa pensionistica”; pag. 20: “A differenza che nel caso delle pensioni e della sanità, negli altri comparti della spesa sociale non è necessario ridurre la dimensione del pilastro pubblico”), etc. Proseguendo, a pag 16 si afferma: “E’ finito il tempo della contrapposizione, tutta ideologica, tra Stato e mercato ovvero tra pubblico e privato. Un Welfare delle opportunità non può che scommettere su una virtuosa alleanza tra mercato e solidarietà”. Mentre il resto del mondo dà finalmente segnali di inversione della scellerata rotta fatta di liberismo e deregulation che ci ha portato alla crisi economica più grave dal 1929 ad oggi, il nostro ineffabile ministro non si è accorto di nulla e ci propone la ricetta reaganiana con oltre un quarto di secolo di ritardo. Certo, occorre anche chiedersi quanto liberismo e deregulation siano stati favoriti da chi, nel centro-sinistra, ha inseguito negli ultimi anni il centro-destra sul suo terreno (“le tasse sono troppo alte”, “le spese sanitarie sono eccessive”, etc.). Ancora a Pag. 16: “Frammentare i bisogni e le risposte del Welfare a questi stessi bisogni appartiene a una logica del passato. Una logica riparatoria, pubblicistica e assistenzialistica”. Innanzitutto apprezzate la pur non originale trovata di aggiungere il suffisso –ismo per far diventare negativa una parola che ha significato positivo (pubblicoàpubblicismo, da cui pubblicistico, così come laicoàlaicismo, etc.): ma cosa c’entra la logica riparatoria con il carattere pubblico? In sanità, storicamente, è stato il privato, in Italia e nel mondo, ad avere una logica riparatoria, ad essere interessato molto di più alla remunerazione delle sue prestazioni che alla prevenzione delle patologie per le quali è chiamato ad intervenire. Peraltro, nessuno gli chiede di immolarsi sull’altare dell’interesse collettivo; l’importante è che non abbia pari dignità con il pubblico perché ciò determinerebbe incontrovertibilmente aumento della spesa e riduzione della qualità delle prestazioni (si veda la sanità USA). Certo, la sanità pubblica avrebbe potuto fare più prevenzione, essere più efficace, etc., ma da qui a dire che la logica riparatoria è la sua, per fare intendere che il privato rappresenta il rimedio giusto, ce ne passa! E’ evidente l’intenzione di ridurre le prestazioni del SSN per favorire il ricorso al privato non solo come erogazione delle stesse, ma anche come copertura assicurativa. Imboccare questa strada significherebbe fare un percorso che ha il suo paradigma nel sistema sanitario USA, nel quale ha mostrato tutta la sua incapacità a garantire la tutela della salute, e che finora ha resistito ai cambiamenti per la strenua opposizione di due potenti lobbies, quella delle assicurazioni e quella dei medici. E’ una strada che è stata ben rappresentata da diversi films della cinematografia americana (uno per tutti: Sicko di Michael Moore) e nella quale ai vantaggi economici delle compagnie assicurative fa da contraltare il peggioramento della qualità della vita e della mortalità soprattutto nella popolazione più svantaggiata economicamente. Ad un certo punto, però, il ministro si accorge che il discorso si sta facendo troppo serioso e decide di alleggerirlo et voila! ci invita (pag. 16) a “fare comunità … sino a riscoprire luoghi relazionali e di servizio come le parrocchie, le farmacie, i medici di famiglia, gli uffici postali, le stazioni dei carabinieri”. Non ha detto “luoghi relazionali o di servizio”, ma “e di servizio”. E ci ha messo anche le stazioni dei carabinieri! Già me li immagino i discorsi: “senti, che ne dici se andiamo a fare due chiacchiere dai carabinieri?” Ottimo! Porta anche le carte; se ne troviamo due liberi ci facciamo uno scopone”. Verrebbe da aggiungere: Signor ministro, a proposito di luoghi relazionali e di servizio, a chi li lasciamo i vecchi sani manicomi giudiziari? Poi il discorso si fa nuovamente meno leggero, parlando di sostenibilità della spesa (pag. 20): “Una ipotesi è quella di intendere i livelli essenziali, sulla base di costi standard, alla stregua di un benchmark ovvero un termine di riferimento, per definire le risorse finanziarie necessarie a garantire – in condizioni di efficienza – i livelli qualitativi e quantitativi delle prestazioni e dei servizi”. Che, tradotto dal Sacconese all’Italiano, significa che i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) non devono rappresentare più le prestazioni che, ai sensi degli artt. 32 e 117 della Costituzione, devono essere garantite a tutti i cittadini, ma vengono declassati ad indicatore: chi volesse garantire tali prestazioni sappia che, se operasse in modo efficiente, dovrebbe spendere tot (e in caso di inefficienza, in misura proporzionalmente maggiore). Infine, per una “vita buona nella società attiva”, non vanno dimenticati i rapporti fra lavoratori e imprese e fra sindacati e imprese. E allora, ci chiede il ministro, (pag. 24): Il sostegno alla bilateralità e alla partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa, comprese le forme di azionariato, non potrebbe rappresentare la soluzione più autorevole e credibile per avviare una alleanza tra impresa e lavoratori sui temi della crescita, dello sviluppo e della giustizia sociale?” Ma chi ha osato dire che il ministro non li responsabilizza i lavoratori? E ancora: “La situazione di impasse potrebbe ora essere superata pervenendo a un patto sulle regole… che individui … nuove e più adeguate regole di tipo partecipativo e collaborativo nelle relazioni sindacali e negli assetti della contrattazione collettiva e forme di prevenzione e moderazione dei conflitti sindacali”. Insomma, arrivato alle conclusioni il ministro avverte che un piano così antidemocratico non può passare se si lascia al sindacato la facoltà di manifestare il dissenso; e allora via con la proposta di sindacato “giallo”! Senza un’opposizione forte, che ne impedisca la realizzazione, i progetti contenuti nel “libro verde” determineranno un arretramento della nostra società non solo nel campo dei diritti fondamentali, ma anche nella capacità di competere nel mercato globale (si pensi all’idea di istruzione che propone). E’ necessario perciò che “il libro verde” venga conosciuto e discusso e che si avviino iniziative per difendere le conquiste democratiche degli ultimi 60 anni, attrezzandosi per un’opposizione di legislatura, perché ci troviamo di fronte ad un progetto che intende ridisegnare i rapporti di forza nella società italiana e che perciò sarà sostenuto dal Governo finché ne avrà la forza e ben al di là di discorsi contingenti sulla tutela dei diritti civili o sulle compatibilità economiche. Per facilitare chi volesse approfondire l’argomento, nella sezione “DOCUMENTI” del sito sono presenti il testo integrale del “libro verde” e 2 documenti della CGIL nazionale, il primo di analisi complessiva e di risposta punto per punto alle domande presenti nel testo del ministro ed il secondo che approfondisce il tema sanitario.

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento