Il Sulcis fra sagre della pecora e mutazioni antropologiche

11 Agosto 2014
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Andrea Pubusa

Mentre a P. Pino leggo sul giornale dei memorabili baci e abbracci di senatori PD e FI e mi si svelano 20 anni di inganni, di finte contrapp0sizioni, di smacchiature ad uso giornalistivo, ecco che squilla il telefonino. Chi sarà questo “rompi”, penso, e mi preparo a driblarlo; appuro che mi chiama Marcello, mio cugino, compagno d’incursioni nella macchia alla ricerca di funghi nonché consigliere fidato nelle mie questioni contadine o pseudotali. “In bidda c’è la sagra della pecora, vieni?”, chiede a bruciapelo. Non so che dire, ringrazio e farfuglio qualcosa: senza il nullaosta di mia moglie, non so che rispondere. “Bella pensata”, gli dico, “ti darò la risposta più tardi”. “Ricordati che se vieni, porto il mio vino e un formaggio piccante, di quelli che non si trovano in negozio per divieto comunitario”. Capisco che l’occasione è ghiotta, peroro la causa in famiglia ed eccomi intorno a un gran tavolo con malloreddus alla campidanesa, pecora e tutto il resto. Qualche saluto di vecchi compagni, che subito mi rimproverano il ritiro dalla politica, e poi non mollo piatto e bicchiere. C’è tanta animazione, stranamente non solo di anziani e gente di mezza età, ma anche di giovani. Noto una mutazione antropologica nei miei paesani. Sono tutti grassi, hanno pance abnormi e così pure abbondano le donne cannone. Un tempo uomini e donne erano tutti filiformi: duro lavoro nei campi e a casa, cibo non sempre abbondante, non lasciavano spazio ai dietologhi. Solo qualche ricco era grasso, mi diceva mio padre, perché non lavora. Ma anche fra i benestanti molti si davano da fare ed erano in linea. Ma perché questa nuova specie umana? I campi assolati e abbandonati, miniere chiuse, fabbriche idem, si vive di cassa integrazione e di pensioni. Non si fa nulla da mane a sera. Cresce il disagio psicologico e il cibo e la birra sono un buon antidoto, provocano almeno l’effetto placebo.
Mentre sono impegnato in queste riflessioni amare, ecco che mio cugino, con cura e delicatezza, come il prete a messa, quasi a presentare un oggetto sacro, sfodera su casu non conforme alla normativa comunitaria. Si crea una magica atmosfera di ansia, allegria e seria applicazione nel ritagliare quella crema, ricca di gai sartarois, e nello spalmare quell’antico nutrimento nelle fette di ottimo cibraxiu. La sensazione è sublime. Mi passano velocemente nella mente mio padre, mio fratello, tziu Giorgi e tanti altri cultori, direi, di una antica filosofia di vita, che a certi cibi annette le sensazioni e le emozioni più forti. Poi, che sfiga!, torno al serio: ma perché la UE ammette la gorgonzola, che è pur sempre marcia e ammuffita e non su casu marzu? ”Perché chi difende la gorgonzola è più forte di noi”, mi rispondono in coro i commensali. Fatto sta che su casu marzu è un bene neppure di nicchia, pasto per congiurati, semplicemente di contrabbando, stante il proibizionismo.

Vorrei esagerare, ma non posso, l’età avanza e son finiti i tempi in cui si facevo collazione con Marco a cibraxiu, casu marzu e binu. Ma Marcello mi legge nel pensiero e mi fa un pacchettino. “Po crasi”, mi dice, salutandomi. Quanto sono speciali (e sensibili) i cugini di paese! 
Mentre mi dirigo alla macchina, vedo Efis, il mio muratore, alle prese con la cottura della pecora, e gli domando il perchè di questa sagra. “Non avete neppure festeggiato il santo patrono, Santu Perdu”, gli contesto. “Beh, lì c’era di mezzo il prete, un guasta feste. Qui abbiamo organizzato come Pro loco, per creare un po’ di vita in un paese morto, ucciso dalla crisi”. “Un modo per provare a voi stessi e agli altri che siete vivi?, gli chiedo. “Più o meno è così, c’è in fondo l”idea che insieme possiamo fare qualcosa di positivo. Un modo per ritrovarci tutti, per uscire dalle nostre solitudini e dai tanti drammi individuali”. Gli faccio i complimenti per la cucina e gli ricordo un certo lavoretto, che sta trascurando.
Vado via dalla sagra con sensazioni contraddittorie. Bella per l’incontro di vecchi amici e compagni, triste per la mutazione antropologica e ciò che ci sta sotto, speranzoso per le parole del mio muratore. Chissà, se Efis ha ragione.
Al rientro a P. Pino incontro casualmente Basilio Sulis, patron del jazz a S. Anna e mio vecchio amico a Carbonia. Gli chiedo dell’appuntamento di fine agosto e mi conferma la ferale notizia: i concerti di fine estate non si terranno. Ma m’incoraggia. Sta lavorando ad un’iniziativa sotto un teatro tenda fra Natale e Capodanno. Una cosa grossa e di qualità. Parla con pacatezza e quasi con entusiamo del nuovo progetto, una sfida anche questa. Gli auguro un buon successo e anche qui lo saluto confuso: al sicuro vuoto di questo agosto seguirà la nuova serie natalizia? Conosco Basilio da quando avevamo i pantaloni corti. So quali prove ha affrontato. E’ un combattente. Penso che il suo progetto si realizzerà.

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