Gianfranco Sabattini
Da tempo, prima ancora dello “scoppio” della crisi, è stata sottolineata la correlazione negativa che a lungo andare si stabilisce tra ritmo di crescita dei sistemi economici e disuguaglianze distributive. In Italia, sui pericoli della maldistribuzione del prodotto sociale, le cosiddette parti sociali hanno sempre mostrato una irresponsabile sordità, anche se non sono mancate le denuncie che le disuguaglianze, che venivano consolidandosi, prima o poi, avrebbero causato non poche rigidità al funzionamento del sistema economico.
L’ILO (International Labour Oraganization) nel 2012 ha pubblicato lo studio “Le disuguaglianze nel lavoro durante la crisi: testimonianze dall’Europa”; il quadro tratteggiato illustra, in particolare, quanto la crisi abbia notevolmente aumentato il livello delle disuguaglianze distributive, a danno soprattutto del mondo del lavoro, indebolendo così ulteriormente le possibilità di ripresa. Lo studio analizza la situazione nei diversi paesi europei ed evidenzia anche le conseguenze delle diverse politiche di austerità attuate.
Le categorie di lavoratori che più hanno pagato il costo della crisi sono quelle dei lavoratori temporanei e dei giovani; i lavoratori poco qualificati sono stati anche loro penalizzati, in conseguenza della diminuzione degli occupati occorsa nelle industrie manifatturiere. Infine, sono peggiorate le condizioni di parità tra generi, nel senso che le donne sono state vittime di discriminazioni, licenziate prima dei loro colleghi uomini ed hanno dovuto accettare pesanti riduzioni di salario. In sintesi, le categorie di lavoratori più deboli sono state le prime a subire gli effetti della crisi e quelle che ne hanno sinora pagato le conseguenze più gravi.
Lo studio, oltre ad indicare i fattori critici, si sofferma anche nell’illustrare esempi delle politiche efficaci cui hanno fatto ricorso alcuni stati membri dell’Unione europea. Paradigmatico, il caso della Germania, con riferimento alla quale molti hanno parlato di “miracolo tedesco”, in quanto è riuscita a tenere costantemente basso il tasso di disoccupazione; la Svezia invece si è distinta per le politiche a favore dell’occupazione giovanile, mentre l’Italia è segnalata per il ricorso alla cassa integrazione come valido ammortizzatore sociale in grado di contenere gli effetti, solo immediati però, della disoccupazione.
Lo studio dell’ILO lancia tuttavia un monito, per avvertire che le politiche di austerità, senza una contemporanea ripresa della crescita, potrebbero avere come conseguenza l’aumento delle diseguaglianze distributive e, conseguentemente, un peggioramento della situazione generale del sistema economico. Ciò significa che, senza un intervento volto a sanare i divari retributivi tra le diverse categorie della forza lavoro, non sarà possibile in condizioni di pace sociale combattere la crisi, evitare l’esclusione sociale di una larga parte della popolazione e avviare quindi possibili misure finalizzate a stimolare la ripresa della crescita.
Le forme di distribuzione del prodotto sociale attualmente esistenti in Italia si sono consolidate dopo il secondo conflitto mondiale, sulla scia di un patrimonio di idee nate e consolidatesi nel periodo pre-bellico, istituzionalizzate con il sistema di sicurezza sociale del welfare State. Questo sistema era basato sulla premessa che l’economia operasse in corrispondenza del pieno impiego, o ad un livello molto prossimo al pieno impiego, cosicché una parte delle contribuzioni produttive della forza lavoro potesse bilanciare le erogazioni previste in suo favore. Ma il sistema così come è stato concepito è divenuto largamente insufficiente rispetto all’evoluzione successiva della realtà economica e sociale. Ciò perché il welfare State è stato progressivamente esteso per coprire le emergenze conseguenti alla crescente complessità del funzionamento del sistema economico, ma anche perché si è consentita la formazione di una “giungla retributiva” tra la forza lavoro occupata, con scarsa o nulla considerazione per chi non è riuscito ad occuparsi stabilmente.
Questo stato di cose, come ricorda Maurizio Ferrera su “La Lettura” del Corriere (“Prove per stipendi (e pensioni) più equi”), già dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso si è incominciato a denunciare, con i lavori pionieristici di Ermanno Corrieri e di Onorato Castellino, i divari categoriali nella previdenza e l’irrazionalità dei criteri adottati nelle retribuzioni che hanno avvantaggiato le fasce dei redditi più alti. Ciò è risultato particolarmente grave all’interno delle pubblica amministrazione, dove sono sempre state adottate regole retributive e previdenziali diverse da quelle adottate nel settore privato, a tal punto da originare solo situazioni di privilegio. Allo stesso tempo – continua Ferrera – gli incentivi e le retribuzioni sono stati “quasi sempre privi di connessione con i rendimenti individuali”, mentre le progressioni di carriera e stipendiali sono state “quasi unicamente imperniate sul sistema degli scatti di anzianità”.
Per rimuovere o attenuare le disuguaglianze che si sono stratificate e consolidate non bastano più, secondo Ferrera, le denuncie isolate; occorre una strategia stabile nel tempo, basata sulla raccolta di dati, sul monitoraggio delle tendenze e sulla definizione pubblica di criteri universalistici, con i trattamenti e i trasferimenti pubblici correlati ad apporti e risultati individuali congrui e misurabili. Se non si introdurranno misure in tal senso, soprattutto all’interno della pubblica amministrazione, atte a garantire forme di “contrappeso”, attraverso la costituzione di Commissioni e di Osservatori per garantire trasparenza e congruità delle retribuzioni e delle prestazioni previdenziali, qualsiasi riforma delle giungla retributiva è destinata a sicuro fallimento.
E’ difficile rimuovere le conseguenze della eccessiva discrezionalità politica con cui nel passato è stata regolata la distribuzione del prodotto sociale; sin tanto che rimarranno intatte le istituzioni che hanno consentito tale discrezionalità non sarà possibile rimuovere le disuguaglianze attraverso qualche “riforma di facciata”. Le diseguaglianze potranno essere rimosse solo se sarà riformato radicalmente nel medio-lungo periodo il welfare State esistente, finalizzando la riforma al perseguimento di altri obiettivi strumentali rispetto al rilancio della crescita del sistema economico, quali quelli connessi al controllo degli esiti negativi sull’ambiente di una crescita continua e quelli connessi all’individuazione ed istituzionalizzazione, come in altre occasioni lo stesso Ferrera ha sottolineato, di una “banda di contenimento” delle disuguaglianze distributive, compresa tra un livello di reddito minimo garantito a tutti, e un “tetto massimo” per i salari più alti.
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