Camillo Bellieni
Dal libro di C. Bellieni “Emilio Lussu” , pubblicato nel 1924.
Ecco come Bellieni racconta del suo arrivo alla Brigata Sassari (brani tratti dal sito http://www.brigatasassari.it.).
“ …Andavo egualmente sul Carso per obbedire alla strana disposizione del Comando Supremo che imponeva ai militari di stirpe sarda di raggiungere al più presto la Brigata Sassari, che doveva essere al più presto ricostituita. Agli ufficiali della medesima stirpe era lasciata benignamente facoltà di seguirli o di restare al proprio Reggimento. Ed appunto come protesta contro questo provvedimento d`eccezione nei riguardi dei miei poveri compaesani, che venivano strappati dal loro reggimento, diventato una seconda famiglia, a cui erano legati dai dolci ricordi della vita di guarnigione, io credevo mio dovere seguirne la sorte. Vago sentimento di solidarietà, perché allora, impeciato di democrazia e di futurismo, combattente e antimilitarista per una Europa senza barriere doganali e con una sola civiltà, io non credevo alla Sardegna. Ma arrivato a Fogliano, ai piedi del greppo rosso, un piccolo brivido di commozione nelle vene: ecco le salmerie della brigata, ecco i primi soldati dal caratteristico viso, con gli occhi neri vicini, il profilo sporgente, e la sagomatura del corpo che ricorda certe figure stilizzate delle pitture murali egiziane. E tu credevi d`aver dimenticato il tuo paese! Non ti accorgevi di portarlo con te non solo nel volto, in tutto il fisico, ma anche nella tua forma mentis, che tutti i dilettantismi e tutte le esperienze di vita riusciranno appena a debolmente modificare. Certo che la razza, questa antipatica formula nazionalista, la stirpe del Sig. Cadorna, viveva in quella piccola folla sempre più fitta man mano che ci s`inoltrava nei camminamenti, appariva in quei soldati dall`aspetto ingenuo e primitivo, come il marchio di un invisibile demiurgico sigillatore. Quasi tutti andavano in su, come me, uomini di cento reggimenti, per fare onore alla Sardegna, in obbedienza all`ordine di servizio Cadorna.”
Di seguito le parole di Bellieni narrano il suo primo incontro con Emilio Lussu:
“ … In una baracca un po` ampia due uomini erano seduti su lettucci di assi e di sacchi. Il Maggiore un po` anziano, dai grandi occhi neri e dai baffi marziali, ed il suo aiutante, un giovanotto con gli occhiali, il viso piccolo tutto barba, il resto del capo avvolto in un passamontagna.
Presentazioni: — Sottotenente Bellieni - Maggiore Cuoco - Tenente Emilio Lussu. —
Domande del Sig. Maggiore:
- Lei è arrivato da avant`ieri sera?
- Signor sì.
- Ha fatto domanda di venire alla Brigata? Bravo.
- Dove si trovava col 43°
- A Plava.
- Si stava tranquilli?
- Non c`è male.
- E qui siamo sempre in allarme.
- Aiutante - aggiunse poi col piglio risoluto dell`ufficiale di carriera che si accordava tanto bene con i suoi baffi e la sua chiara parlata toscana - lo accompagni al Budello. Bisogna che quel servizio sia presto eseguito; - e rivolgendosi a me
- Stasera col suo plotone lei darà il cambio in linea. Prenda quindi immediatamente visione del fronte. Vada pure.
L`ora del riposo si allontanava sempre più. Uscimmo dalla baracca con il tenente Lussu.
- E` un brav`uomo il Maggiore Cuoco - disse quando fummo un po` lontani - non impressionarti per il suo cipiglio.
- E` l`abito del mestiere. Starai bene qui fra noi.
Io lo guardavo: alto, snello, la schiena diritta, un visetto di bimbo, il naso corto e un po` all`insù, la barbetta a cespuglio che accarezzava di continuo con un gesto nervoso, gli occhi piccoli, truci, scintillanti dietro gli occhiali. Truci, e ad un tratto pieni di dolcezza, quando rideva, con una larga bocca cordiale che mostrava i denti bianchi allineati.
Fu proprio Emilio Lussu ad accompagnare Bellieni alla Trincea delle Frasche, ecco il racconto:
“ … Ed eccoci finalmente arrivati alle Frasche.
Ci fermammo un po` per respirare. Con coperte, teli da tenda e cartoni incatramati, i soldati appostati dietro un muretto non più alto di 70 cm. avevano allestito delle modeste tettoie contro la pioggia. Uomini e cose però, sembrava avessero ricevuto un`unica mano di colore, una passata rosso-mattone. I soldati con i fucili alla feritoia, tiravano di continuo, quasi per bizza, sui nemici comparenti e scomparenti, che lavoravano anche di giorno a rafforzare le loro linee improvvisate.
Il solito quadro di genere, di trincea conquistata. Ma volgendosi indietro, alle spalle della linea, era uno strano spettacolo. L`assalto passava ancora di là come venti giorni prima. A 30 metri più indietro i cavalli di Frisia austriaci, contorti, frantumati dalle artiglierie in più punti, sorreggevano, là dove erano intatti, lugubri figure di uomini, nell`atto di varcarli, rimaste in piedi. Sui volti era ancora scolpita l`ira del soldato ucciso nell`istante in cui disperatamente cercava di divellere il filo spinato dal cavalletto, per aprirsi un varco. Più vicino alla trincea, gruppi di uomini caduti gli uni sugli altri, la baionetta in canna ancora puntata verso l`obbiettivo della corsa. Altri sfracellati dalle bombe a mano senza più testa, o col torace infranto. Altri raggomitolati dietro un mucchietto di sassi, che avevano raggruppato con la mano per far da riparo alla testa. A qualche distanza da noi un carnaio informe e ben rilevato sul terreno, in cui si mescolavano le tinte verdastre dei brandelli di vestiti e le giallo-ceree membra ancora riconoscibili. A pochi passi della trincea, in primo piano, direbbero i pittori, un grande cadavere austriaco vestito d`azzurro intenso, senza segni esteriori di ferita, le mani e il viso d`un colore roseo violaceo quasi trasparente come di carne congelata, si stendeva su di un fianco con lo zaino sulle spalle, i piedi calzati da grandi scarponi chiodati e muniti di ricurvi ferri di montagna. Qua e là sulla terra rossa mettevano cupe chiazze di colore le coperte grigio-nere distese a ricoprire quei poveri ricordi della gloriosa ondata d`assalto. …”
Fu questo il mio primo incontro con Emilio Lussu, e si svolse in così strane circostanze che il ricordo mi restò sempre impresso nell`animo con una precisione fotografica. Che si trattasse di un soldato eccezionale mi ero subito accorto, dall`atteggiamento ammirato e rispettoso dei vecchi della Sassari, levatisi prontamente al suo passaggio. Ben presto ne ebbi conferma dai loro discorsi fatti a mezza voce in dialetto senza alcun imbarazzo per la mia presenza, giacché non avevano fatto ancora la scoperta ch`ero sardo. Allora dopo le Frasche, la grande maggioranza degli ufficiali era continentale.
Già dal novembre 1915 Emilio Lussu era uno degli ufficiali più anziani della brigata. Uno fra i fondatori del 151° a Cagliari. Era partito col reggimento in quella deliziosa giornata di primavera inoltrata nella quale il fervido patriottismo insulare aveva coperto di fiori i figli di Sardegna che andavano a Roma per sfilare dinanzi al re prima di raggiungere il teatro della guerra. Maggio Giugno di canti, di sogni, di rosee speranze. La guerra sembrava allora una romantica avventura che si sarebbe presto conclusa con una facile marcia su Trento e Trieste, fra un giocondo rombare di campane, il fragore di musiche militari e gli osanna delle popolazioni liberate. Tutto sembrava giustificare queste previsioni. La Brigata Sassari era stata mandata sulle sponde del Garda, a fare tattiche in attesa dell`ordine di puntare su Riva. Deliziose giornate di Calcinato, quando al tinnire delle armi si accompagnava il riso argentino delle bimbe lombarde, ricordate con nostalgia dai superstiti per tutto il calvario della guerra. Innocui esercizi e finte battaglie, variopinta féérie con l`ampio sfondo della distesa perlacea del lago, dolce principio di flirt e d`idillio campestre, e pur prologo d`un tragedia sanguinosa.
Emilio Lussu era stato uno degli ufficiali più eleganti e fortunati in questa giostra cortese. Poteva ricever dei punti solo da Alfredo Graziani, che nella sua qualità di cavalleggero e d`ordinanza del Generale godeva fama di rubacuori irresistibile. …”
Ancora Bellieni ha sulla “sardizzazione” della Brigata una sua del tutto personale visione:
” … La brigata doveva essere ricostituita. Ed il Comando Supremo, violando nei suoi riguardi un caposaldo d`organica dell`esercito italiano, (il reclutamento nazionale, fatta eccezione per i battaglioni alpini) volle conservare il carattere sardo alla brigata. Mentre sino a quell`istante la Sassari, pur essendo in grande prevalenza composta di sardi, non aveva una esatta consapevolezza della sua funzione regionale, (alla stessa maniera di tutti gli altri reparti di fanteria, che uscendo dalla mobilitazione, ed essendo stati completati con i richiamati del Distretto dov`era la sede di guarnigione, avevano avuto sino allora una fisionomia occasionalmente regionale) da quell`istante, in seguito all`ordine del giorno Cadorna che richiamava da tutti i reggimenti i sardi per inviarli alla Sassari, essa divenne un reparto isolano, sentì di rappresentare un reparto d`eccezione.
Piovevano in quei giorni da tutto il fronte soldati colle mostrine dai cento colori, lanciabombe, tiratori scelti, porta tubi di gelatina, elementi affezionati ai loro reggimenti, ben trattati dai loro comandanti, moltissimi in attesa di andare in licenza, le prime sospirate licenze annunziate dal Comando Supremo.
Erano costoro gli elementi scelti di ciascun reggimento: messi a contatto con camerati del restante d`Italia, i sardi spinti dal sentimento d`orgoglio e d`emulazione che è vivissimo in essi, cercavano di essere i migliori, i più solerti, i più audaci; andavano alla ricerca della lode; godevano della ricompensa conquistata. Vivevano nella simpatica atmosfera morale del loro reggimento, tradizione qualche volta secolare, dovunque prodotto di una organizzazione precedente alla guerra. Strappati dal loro ambiente, questi soldati, irritati, spesso scontenti di abbandonare i compagni di altre regioni, (quelli che erano stati in tempo di pace i loro vicini di branda) furono inviati alla Brigata Sassari con una sola parola: Sardegna.
Siete sardi, dovete andare alla Brigata che ha fatto onore al vostro paese, per combattere e morire dove hanno combattuto e son morti i vostri fratelli sardi, per la gloria della Sardegna. Tremendo richiamo a tutti i misteriosi vincoli di sangue, ad un processo di selezione di razza compiuto nell`isolamento di secoli in una terra che più di ogni altra macchia con la sua impronta gli uomini che vi nascono, capace di assorbire e trasformare completamente in due generazioni le genti forestiere che vi prendono stanza.
La prima salita in trincea, per tenere il fronte, vide appunto questo strano spettacolo: soldati di tutti i reggimenti del fronte, privi di alcun affiatamento fra loro, che tenevano a conservare le antiche mostrine, senza ruollini, senza spirito gerarchico, ma stretti assieme da un solo vincolo: fare onore alla Sardegna, con un solo mezzo di comunicazione: il dialetto, i molti dialetti sardi, parlati promiscuamente, quasi per sfogo nostalgico, reciprocamente intesi. Era una grossa tribù di sardi che teneva il fronte. E tutti si prodigavano in azioni individuali, in colpi di mano, perché bisognava far vedere che i nuovi, provenienti da altri reggimenti, non erano da meno degli altri, di quelli che erano morti, o, scarsi superstiti, rappresentavano una piccola minoranza della compagnia. …”
Nella narrazione che segue Bellieni affronta il sostanziale “distacco” del sardo dalla guerra:
“… Ma, non appena si discese in terza linea scoppiò la crisi morale, che era fatale prevedere. Il malcontento per il continuo su e giù, senza il lungo riposo promesso, quanto mai necessario in quelle singolari condizioni, la ressa per le licenze che non si potevano concedere a tutti contemporaneamente, e per le quali venivano fatalmente sacrificati i nuovi arrivati, sopratutto questa parola Sardegna, che sola teneva unito il reparto fece sì che si venisse spontaneamente determinando un dualismo fra gli elementi sardi e quelli forestieri, che sorgesse una irritazione vivissima, contro i nuovi ufficiali in prevalenza non sardi, giovani valorosissimi, entusiasti, ma incapaci di comprendere lo stato d`animo che si era formato lentamente, alla stessa maniera di una camera di mina, spontaneamente determinatasi nei sotterranei d`un forte, per la decomposizione d`una miscela instabile d`alti esplosivi. Al primo atto di energia, al primo gesto apparso brutale tutti e due i reggimenti insorsero, assalirono e malmenarono gli ufficiali non sardi, per qualche ora seminarono lo scompiglio nelle tranquille retrovie di Cavenzano e Villa Vicentina. In questi momenti di crisi, che potevano anche determinare lo scioglimento della Brigata, distruggendo le premesse d`una storia ancora in marcia, rifulse l`abilità, l`intuito di Emilio Lussu, e di altri pochi dei due reggimenti che si trovavano all`altezza della situazione.
Il loro sollecito intervento valse a calmare le ire dei soldati ed a compiere il miracolo. Si trattava di accettare lo stato di fatto, il sardismo creato dal Comando Supremo, ed impiegarlo ai fini della guerra nazionale. D`altro canto occorreva compiere la fusione tra i reparti, affiatare i soldati con gli ufficiali. “Mancari malu, a su nessi chi siet sardu. Issu nos podet cumprender”. Anche cattivo, purché sia sardo. Esso solo ci può comprendere. Questo era il voto dei soldati, di coloro che erano stati colpiti nelle loro consuetudini di amicizia e di cameratismo, e che da questa violenza spirituale erano risorti ad una più tenace fratellanza isolana.
“Semus sardos”- dicevano con orgoglio e amarezza, ed alla sera il mulattiere che saliva l`erta di Castelnuovo, cantava con voce sommessa: “Pro defender sa patria italiana distrutta s`este sa Sardegna intrea.”
Gli ufficiali non sardi restarono; ma da parte degli ufficiali isolani, guidati, nel 151°, dall`affettuoso intuito di Emilio Lussu, del Tommasi, del Graziani, di alcuni altri, si venne a quotidiano contatto con questo popolo in divisa, che aveva ristabilito usi e costumi del paese, riallacciato antichi vincoli di ospitalità, ripreso le bardane sui cavalli ed i muli dei reparti d`Artiglieria e Cavalleria scaglionati nelle retrovie, ricominciate le gare poetiche, ricostituita insomma la Sardegna sul Carso e nella piana Friulana. Ciò che senza guide illuminate avrebbe portato a gravissime ribellioni, a formazioni di nuovi focolari d`odio, fu invece elemento di forza per le prove future, e proiettando innanzi a sé una ideale luce, costituì il segreto clima morale del Fior, dello Zebio, della Bainsizza, del Col del Rosso, d`Echele, del Piave. “Viva la Sardegna!” Gridavano tutti gli ufficiali nell`ora dell`assalto, anche i non sardi scelti fra i migliori dell`esercito, anche il pallido Lino Fior, friulano, ferito gravissimamente tre volte con la Brigata, e spentosi nel dopo guerra con un colpo di pistola dinanzi all`aperto Vangelo, lui, il pallido friulano tormentato dalla gioia del sacrificio, di una glaciale ispirata compostezza, il mistico silenzioso, gridava: «Viva la Sardegna» quando portava i soldati all`assalto. “
Ancora Camillo Bellieni, nel 1924, ricorda il Lussu “condottiero”:
“….Il Tenente Lussu! Nella quindicina di riposo, i soldati oramai ripuliti, con le divise nuove, le mostrine bianco-rosso fiammanti, lo ammiravano mentre passava di galoppo, diritto in sella, sul cavallo un po` bizzarro che a volta faceva degli scarti. Non cade certamente. E sorridevano con aria beffarda quando passava invece quel tale capitano che aveva bisogno d`afferrarsi all`arcione non appena il cavallo cominciava a caracollare.
L`Aiutante Maggiore del 3° Battaglione sapeva stare in sella, era un guidatore disinvolto e sicuro. Per un popolo di cavalieri qual`è il Sardo, che esige il corretto portamento in sella, e concepisce un elegante cavaliere come un necessario complemento alla perfezione. Anche delle forme del cavallo, queste virtù di contegno accrescevano il prestigio di Emilio Lussu.
Emilio Lussu era non soltanto ufficiale valoroso, elemento di affiatamento fra i colleghi che ne apprezzavano l`intelligenza e la signorilità, comandante capace di ispirare fiducia nei soldati, ma era anche un uomo di cuore. Fece la guerra convinto della necessità di essa, pronto al sacrificio, severo con sé e con gli altri, ma senza indulgere mai ad un sentimento di ferocia che più spesso di quel che non si creda, si faceva strada nei cuori.
Ricordo che di ritorno sullo Zebio, dopo la mia prima ferita, lo trovai stremato dall`angoscia, ridotto quasi ad un vecchio.
Mi abbracciò e gli spuntarono le lacrime. Poi mi disse piano, perché nessuno sentisse:
— Sono stanco sai, di fare il macellaio. Fino adesso avevo fatto l`ufficiale. Ora invece bisogna portare gli uomini al massacro senza scopo. Ed alla fine il cuore si spezza.
Io lo guardai in silenzio, non riuscendo a trovare una risposta.
Era il tempo della « viva pressione sulla fronte avversaria, alle pendici dello Zebio » quotidianamente annunziata dal comunicato Cadorna.
E la viva pressione consisteva nel lanciare i soldati sui reticolati nemici intatti, per un varco a 15 metri dagli austriaci, in cui bisognava passare per uno.
Una specie di tiro al piccione offerto ai Kaiserjaeger che si dilettavano di spaccare le teste ad una ad una, non appena comparivano allo scoperto. La pressione doveva continuare inesorabile, ed ogni giorno, sul lugubre varco limitato da sacchetti intrisi di sangue e di cervella, si ammucchiavano i cadaveri, sino a che non veniva raggiunto il numero dei morti prescritto dal Comando di Divisione. Allora un colpo di telefono, e dall`alto veniva l`ordine di sospendere l`azione.
Venti volte Emilio Lussu saltò fuori dalla trincea, e miracolosamente illeso andò a sbattere contro i cavalli di frisia nemici ancora intatti. Una singolare fortuna pareva accompagnarlo. Ed un giorno finalmente, di fronte alla stoltezza dell`olocausto di centinaia di soldati, senza alcun risultato, senza una visione d`assieme, senza alcuna probabilità di successo, la sua coscienza si ribellò all`ordine rinnovato di ricominciare alle dieci del mattino l`assalto quotidiano.
Chiamato dal Comandante la Divisione, fermo sull`attenti, ascoltò in silenzio le disposizioni impartite, sempre le stesse da quasi venti giorni. I Comandanti del 3° Battaglione, uccisi, feriti, ammalati, si avvicendavano vertiginosamente, e solo l`Aiutante maggiore restava, miracolosamente, a custodire la continuità del servizio.
— Ha inteso tenente? Mi dia assicurazioni per una immediata esecuzione.
— Signor no.
Il Generale lo guardò cogli occhi sbarrati.
Il tenente Lussu fermo sull`attenti, fissava il superiore parimenti in viso, senza alcuna arroganza, collo sguardo dell`uomo deciso.
— Come signor no! Non intende eseguire l`ordine?
— Signor no.
— Io lo faccio fucilare immediatamente.
— Signor sì.
Il Comandante incrociò le braccia.
Stette un po` sopra pensiero. Poi ad un tratto:
— Vada pure.
Per quel giorno l`azione fu sospesa.
— E` il più bello ufficiale dell`esercito — borbottò poi il Generale quasi fra sé — se tutti gli ufficiali avessero quel fegato, la guerra sarebbe già vinta da un pezzo.
Il Generale, che era un valoroso, diceva in quell`ora di sincerità una cosa profonda. Poiché fra le varie forme di coraggio, la più alta è quella di saper resistere ai propri superiori, se così impone la propria coscienza, specialmente quando si è dato sempre prova d`un`obbedienza pronta, rispettosa e assoluta. Vi sono momenti solenni in cui l`eroe dell`immediato adempimento deve saper diventare l`eroe del rifiuto.
Problema altissimo di morale, che non può trovare soluzione se non nell`intimo del proprio spirito e che la maggior parte dei soldati respinge da sé con la cieca obbedienza. Fra la morte su di un reticolato nemico e quella inflitta da un plotone di esecuzione, la scelta per la quasi totalità è immediata.
Una triste prova di questa debolezza da parte degli inferiori comandi che hanno il compito di far eseguire gli ordini partiti dall` alto, ci è offerta dal Cimitero dello Zebio. Lassù fra la schiera numerosa di ufficiali morti, oltre 90 sono caduti nello spazio di un mese, vittime dello stillicidio quotidiano del luglio-agosto 1916.
Una grande Croce protegge i nostri martiri, che circondati dai loro soldati sono un esempio perenne dei tesori di devozione, di eroismo, di spirito di sacrificio, proprio all`esercito italiano. Questo ha una sola aspirazione ed una sola esigenza: essere comandato degnamente da generali valorosi, intelligenti e forniti di umanità, cioè di esperienza di vita.
Capitano, Comandante di Compagnia, di Battaglione. I superficiali sognatori di un esercito democratico, all`acqua di rose, umanitario, immagineranno che Lussu, sostenitore sin d`allora dei diritti del proletariato, capo di plebe in rivolta nel dopo-guerra, sia stato l`ufficiale odiatore della forma, di quel contegno esteriore che è croce e delizia di tutti i vecchi troupiers di Caserma. Tutto al contrario: Emilio Lussu fu un rigido osservatore della forma anche in trincea. Pretendeva che i soldati si levassero in piedi al suo passaggio, che le giberne fossero costantemente allacciate, che il fucile fosse pulito. Come ogni uomo che vive nella realtà sapeva che l`Esercito, arma e difesa della Nazione, non può partecipare a quel cozzare di contrasti, di aspirazioni, d`ideali che è la lotta di partito, ricchezza spirituale di un popolo. L`esercito invece, anche nello stato più democratico, è fissa gerarchia di valori, è devozione completa ad un supremo ideale, è regola di ogni attività, è forma. Coloro che gli dedicano tutta la vita debbono essere dei sacerdoti, austeri, silenziosi. Gli altri debbono essere orgogliosi di potervi partecipare, di sacrificare, in un momento solenne della storia, la propria individualità, per un purissimo ideale spoglio d`ogni seduzione. L`esercito vive in un`atmosfera di sogno, in una astratta irrealtà, in cui non esiste la lotta economica, che é l`humus fecondo della pratica quotidiana. Allargare l`esercito sino a comprendere l`intera nazione nella sua totale multiforme attività, fare della nazione un esercito, è una retorica banalità da ingenui o da furbi imbroglioni. Dove giuocano per fatale necessità di cose le leggi economiche, per la riproduzione delle energie e l`affermazione delle attività individuali, dove si realizzano la produzione e lo scambio sotto la spinta dell`interesse, là é semplicemente assurdo imporre una norma regolatrice di tutte le diverse maniere di operare. E` l`eterna utopia che risorge da Platone a Campanella, sino ai teorici del socialismo premarxista, e che ora rifà capolino nelle recenti manifestazioni del bolscevismo e del fascismo.
L`esercito, strumento economico vive soltanto quando si trova al di fuori di ogni democrazia, in una rigida scala di gerarchie. E chi vi entra deve immediatamente assumere il proprio posto.
Emilio Lussu fu un vero comandante, fu l`uomo dal pugno di ferro, giusto, conoscitore del cuore umano, pronto a premiare chi generosamente si offriva volontario, pronto a punire con la rivoltella il codardo che tentava sottrarsi al dovere. I soldati lo amavano, avevano in lui una cieca fiducia.
E nelle ore più solenni l`ufficiale rigido sapeva talmente confondersi con l`uomo di cuore, che dalla sintesi di queste opposte qualità sorgeva fuori una figura di dominatore, piena di fascino e di mistero.
Nel giugno 1917, dopo l`azione infelice che prese il nome dell`Ortigara, la battaglia era stata accanita e, per lunghe ore, d`esito incerto, anche sullo Zebio. Il nemico aveva alla fine infranto l`assalto italiano. Restavano nel breve spazio fra trincea e trincea centinaia di feriti, dell`una e dell`altra parte, e da tempo essi si lamentavano invocando soccorso. Fino a che vi era stata speranza di sopraffarsi vicendevolmente, la fucileria era continuata e nessuno aveva dato ascolto alle loro grida.
Ma quando la lotta si fu definitivamente stabilizzata, il comandante di battaglione sentì che i suoi doveri di umanità si facevano più imperiosi, e dovevano sopraffare ogni altra considerazione di pratica utilità. Balzato sulla trincea Emilio Lussu chiese la sospensione del fuoco. Gli austriaci acconsentirono. Un quarto d`ora di tregua d`armi. Uscirono i portaferiti; i morti e i malvivi furono presi dalle due parti, il terreno fu sgombro.
Il quarto d`ora era passato. I due comandanti ritti sui parapetti, per sorvegliare le operazioni, con l`orologio alla mano, diedero l`ordine di rientrare in trincea i loro dipendenti; poi si salutarono in silenzio e scomparvero.
Un colpo di fucile in aria dalla linea italiana, ed un altro colpo dall`austriaca. come s`era convenuto. Era il segnale della ripresa. Le ostilità erano ricominciate. Vi fu allora un pausa di silenzio. Improvvisamente una testa di austriaco riapparve sorridente.
— Fai fuoco! Ordinò il capitano Lussu alla vedetta più vicina.
Un colpo, un urlo, e poi una voce roca dalla trincea nemica:
— Vigliacchi!
Ma subito un`altra voce, quella del comandante austriaco, spiccando le sillabe in italiano:
— Ha fatto bene. Questi erano i patti.
Passavano ormai gli anni, e la sua vita si confondeva con quella della Brigata. Man mano che la Sassari si copriva di gloria la figura del giovane capitano risaltava sempre più. Non era stato mai ferito. Spezzatosi il polso per un accidente durante la ritirata, quando la brigata, che s`era coperta di gloria sulla Bainsizza, costituiva l`estrema protezione dell`esercito, ed ogni giorno affrontava il nemico per rallentarne la marcia, egli ritorna dopo pochi giorni in linea e partecipa alla battaglia di Col del Rosso, dove finalmente resta ferito ad un braccio. Guarito in breve tempo, è di nuovo col suo reparto. La battaglia del Piave lo ritrova ancora inesauribile animatore di tutto il reggimento, di tutta la brigata nella difesa meravigliosa, nella irrefrenabile riscossa.
Oramai il suo nome è circonfuso da un`aureola di leggenda. Nell`ottobre i bianco-rossi sono i primi ad entrare a Vittorio Veneto. Emilio Lussu cavalca alla testa del suo battaglione, come un grande eroe barbarico che guidi un esercito di crociata in difesa della fede. E al limitare del paese un vecchio prete si inginocchia dinanzi al suo cavallo, e additando le leggendarie mostrine dei soldati mormora con voce rotta dal pianto:
— Siano benedetti questi colori: gli ultimi ad abbandonarci nei giorni della sconfitta, i primi a ricomparire nell`ora della vittoria. …”
E ora alcune considerazioni del Bellieni politico e padre del Partito Sardo d`Azione:
“ … Se ha lo scrivente una modesta ragione d`orgoglio è quella d`avere additato per primo Emilio Lussu come il capo necessario dei combattenti nella nuova lotta civile.
Fu il movimento dei reduci in quel torbido e nevrastenico anno 1919 una jacquerie di legionari disoccupati, anelanti alla terra, fatalmente risorgente dopo tutte le grandi guerre, come alcuni giovani studiosi di storia e di politica oggi affermano? Noi, attori e partecipi, non osiamo dare un giudizio che pretenda di avere un valere definitivo; forse non possiamo. Certo che in quei giorni di ritorno alla vita civile il mito di redenzione alla patria originato dal martirio della trincea fu profondamente sentito da tutti i combattenti, da tutti coloro che durante le giornate più tormentose avevano sognato il dietrofront dopo la vittoria, conservando le formazioni di battaglia, per la punizione e purificazione di un Italia glaccida, barattiera, priva di ideali.
Non fu colpa dei combattenti se in tutto il Mezzogiorno e le Isole non esistevano già partiti politici, e se perciò questo mito elementare fu l`unico strumento con cui essi poterono smuovere le dure zolle d`un terreno mancante di ogni germoglio, di vita autonoma. Nella Italia settentrionale, come in Francia, in Inghilterra, gli ex combattenti si inquadrarono nei preesistenti partiti politici; nel meridione e nelle isole crearono il bolscevismo patriottico, stato d`animo di ingenui impreparati, ma che significò in principio netta opposizione alle vecchie clientele, e si concretò nell`assalto al Municipio ed alla terra.
Ma il guaio maggiore fu che questo movimento, appunto perché stato d`animo, cioè assenza d`ideologie direttrici, mancanza di esperienza della vita politica, cadde in mano dei primi ufficiali congedati, provenienti dalle cricche democratiche, paglietta maneggioni che si servirono dei combattenti, per acciuffare un medaglino o acchiappare un seggio di sindaco, e abbandonarono poi alla deriva questo meraviglioso materiale umano. Tutto ciò non avvenne, per fortuna nostra, in Sardegna; e lo scrivente, comprendendo il significato storico del movimento politico che s`era iniziato nell`isola, con tutte le sue forze, a Cagliari e a Sassari si battè perché alla testa dei combattenti sardi fossero dei capi degni, degli uomini di sicura fede, dei soldati che non avrebbero sfruttato i loro commilitoni, e fosse dato il bando alle vecchie e nuove maschere della democrazia e del liberalismo.
Bisogna che ritorni Emilio Lussu in Sardegna. E` questo l`uomo di ferro a noi necessario. Ripeteva ciò nel dicembre 1918 ad amici ex combattenti cagliaritani, esitanti ad organizzare un movimento politico contro le vecchie cricche, preoccupati di perdere così la generale simpatia che allora i reduci ispiravano. E diceva loro che anche a costo di suscitare feroci ostilità, era necessario innalzare una bandiera di partito e darla in mano ad uomini di fede sicura. Le vecchie clientele che pure erano state un`esigenza storica ed erano composte di elementi nella vita privata quasi sempre onesti, erano oramai incapaci di guidare la Sardegna nella nuova sua fase di organizzazione economica e spirituale.
E mentre a Cagliari s`iniziava una campagna da parte di alcuni giovani non i combattenti, ma pieni di fede, per la importazione di grandi uomini di marca continentale per le prossime elezioni, lo scrivente metteva in guardia i reduci contro tali illusioni che avrebbero potuto recare, come infatti recarono, gravissimi danni alla nuova formazione politica. E additava agli elettori dell`Ogliastra e del Gerrei l`eroe non ancora ritornato, Emilio Lussu, come l`uomo, il soldato puro uscito miracolosamente dalla guerra per fare da condottiero nella battaglia civile. Mette conto riportare alcuni brani di quella esortazione un po` retorica, comparsa sulla Voce dei combattenti di Sassari, come indice dello stato d`animo di quell`ora:
«Il primo giorno della guerra lo ha trovato alle frontiere, l`ultimo in prima linea dopo sessanta fatti d`arme sanguinosi, più vecchio di spirito, dolorante di tragiche esperienze, ma con la stessa calma; con la stessa virile risolutezza del primo giorno.
La sua storia è la storia della Brigata. Non é mancato a un solo fatto d`armi, è balzato dalle trincee ogni volta che i soldati hanno dovuto valicare le trincee. Ferito dolorosamente non ha voluto godere di un sol giorno di licenza per compiere tutto intero il suo volere. La morte non l`ha voluto per un capriccio del caso. Quest`uomo che con ciglio asciutto ha visto cadere d`intorno i compagni più cari, non è un sanguinario. Ha sofferto in silenzio tutto lo strazio di migliaia d`uomini della sua razza che sono caduti per il tricolore e lo stendardo crociato. La sua anima gentile di giovane colto si manifestava nei brevi intervalli di calma in cui i superstiti ancora trasognati si riconoscevano e celebravano la loro amicizia cementata nel folle gioco della guerra. Allora Emilio Lussu faceva conoscere la sua levatura spirituale, la sua visione profonda e qualche volta ironica della vita, la vastità e serietà della cultura.
Ma il suo criterio, l`equilibrio delle facoltà intellettuali, il coraggio nell`assumere responsabilità non gli venivano mai meno, neanche nelle ore tragiche della battaglia e della morte imminente. Quest`uomo sapeva dire la sua parola ferma e risoluta ai superiori quando eseguire letteralmente un ordine poteva significare uno spaventoso inutile massacro, questo uomo sapeva far eseguire un terribile ordine all`amico suo più caro quando l`obbedire poteva significare il raggiungimento del compito prefisso. La morte non l`ha voluto. Ad essa egli si era votato, pur comprendendo interamente il valore della gioia della vita; ma questo giovane pieno di baldanza, e di fiducia nel fatale trionfo dei suoi ideali, é uscito da quattro anni di guerra un uomo maturo, dalla ferrea volontà, degno di guidare un intero popolo.
Chi lo ha visto nella penultima battaglia del Piave, racconta le sue gesta come quelle di un eroe da Mito.
“… In piedi, dopo sette notti di veglia, egli lanciò il grido per il contrattacco finale. Procedeva tra le raffiche delle mitragliatrici avversarie, battendo a terra un`alta mazza, la tracolla carica di bombe, intonando una canzone alla nostra maniera. Tutta la brigata entusiasta lo seguiva, gli artiglieri riprendendo i loro pezzi gridavano: Viva la Sardegna!
I biondi straccioni terrorizzati prendevano in disordine la via della fuga. …”
Barbaricini ed Ogliastrini, voi non avete bisogno di aedi, o di gonfi professori. Voi avete bisogno di un uomo di saldi rognoni che vi conosca, che sappia le vostre sofferenze, che comprenda le vostre aspirazioni.
Gli illustri salvatori d`oltre mare restino alla loro gloria, alle loro trascendenti missioni. Figgete gli occhi sui modesti di fede sicura che parteciparono alla vostra passione in questo quadriennio di sacrificio, e con animo fraterno nei momenti di riposo e di oblio, assistettero ai vostri balli rituali e ascoltarono le vostre sacre canzoni. In quei tempi era facile accusare di semplicismo le nostre baldanzose affermazioni, di superficialità i nostri propositi di rinnovamento. Ed infatti, a lume di logica, le critiche non erano prive di solida base: — Sta bene, uomini puri, soldati valorosi, nuove energie, giovani, ecc. ecc., ma che cosa volete? il vostro movimento è di una genericità inconcludente. A che tendete, a che aspirate?
Osservazioni fondatissime. Solo che questi critici non avevano partecipato a quel misterioso processo di formazione del sardismo, che si è tentato di illustrare nelle pagine precedenti, e di cui testimone continuo fin dagli inizi fu Emilio Lussu, divenutone l`incarnazione, il simbolo, la bandiera.
Già Attilio Deffenu, nei mesi trascorsi alla Brigata prima del suo glorioso sacrificio, colla sensibilità politica raffinatissima che gli era propria, aveva colto il murmure sommesso, ma moltiplicato all`infinito in profondità e risonanza, sorgente dal battito delle vene di queste migliaia di sardi adunati in terra forestiera. E questo murmure diventava parola, e significava consapevolezza di una comunanza di storia, d`interessi, di idealità che prendeva il nome di Sardegna, ed esprimeva una volontà nell`avvenire. Sardegna, vecchia parola che sessant`anni di provincialismo avevano fatto dimenticare, e che risorgeva con nuovi coloriti sentimentali, con nuove sfumature di significato. Sardegna voleva dire autonomia, libertà non soltanto per l`isola nostra, ma per tutta l`intera nazione, oppressa ancor oggi dal più soffocante statalismo, che inesorabilmente vuol compiere la distruzione di quelle vive forze locali costituenti già l`humus fecondo da cui fiorì la civiltà dei secoli d`oro.
A distanza di cinque anni c`è dato ancora vedere quello che era semplice stato d`animo trasformato in preciso pensiero politico. Emilio Lussu è ancora sulla breccia; noi vecchi suoi compagni, i combattenti del 1919, siamo ancora in gran parte al suo fianco, nonostante recenti amarezze. Il distacco di alcuni commilitoni che presero altre vie, ci ha portato molto più dolore che non sdegno. Ma l`ultima battaglia ci ha riempito di conforto. Rappresentiamo una grande viva forza, non solo sarda ma italiana; giacché il partito Sardo è un monito ed un esempio per tutto il Mezzogiorno, e per tanta altra parte d`Italia, economicamente e spiritualmente Mezzogiorno. E guardiamo verso i giovani. Usciti stanchi dalla guerra, invecchiati di dieci anni, tormentati da ferite ed acciacchi, noi siamo materiale destinato a bruciare, strumento della Provvidenza in un`età di transizione. Reggeremo ancora per poco all`ardua fatica intrapresa.
Vengano gli adolescenti di ieri ad occupare i nostri posti di combattimento, e ci confortino con il loro entusiasmo, le loro inesauribili energie. Nulla potrà maggiormente riempirci di gioia, perché sarà la prova della perennità dell`idea al di fuori del ristretto ambito spirituale d`un gruppo di romantici superstiti.
Completo con questi brevi cenni il profilo dell`amico Lussu. Ad altri parrà che molto mi sia occupato del soldato e ben poco dell`uomo politico.
Rispondo che ormai sei anni sono trascorsi dalle fine della guerra e già gli avvenimenti di quel periodo appaiono composti a distanza in un quadro di serenità, avvolti in un`atmosfera di nostalgia come tutte le cose morte. Non son più che il ricordo della nostra giovinezza. L`uomo politico é invece ancora troppo vicino a noi, troppo fraterna e stretta è stata la nostra collaborazione, perché si possa scrivere della storia, quando si combatte la lotta di parte. Mi sono quindi accontentato di raccontare pianamente un periodo della vita di Emilio Lussu che è, per lui motivo altissimo di gloria. Altri dirà in avvenire dell`uomo politico che seppe resistere a tutte le lusinghe di onori e di cariche, per mantenersi fedele all`ideale degli anni di guerra.”
Camillo Bellieni (note biografiche tratte dal sito http://www.brigatasassari.it)
Camillo Bellieni nacque a Sassari, dove la madre si era trasferita temporaneamente per partorire, nella casa dei genitori di lei, come si usava fare in quegli anni, trascorse la sua prima infanzia, sino alle soglie dell`adolescenza, a Thiesi, centro agropastorale della provincia di Sassari, dove il padre era titolare della locale farmacia.
Dopo aver compiuto gli studi presso il Liceo Azuni di Sassari, negli stessi anni in cui lo frequentava il figlio dell`economo del convitto Canopoleno Palmiro Togliatti, futuro segretario del Partito Comunista Italiano, si laureò, in Giurisprudenza nell`ateneo sassarese, e, successivamente, in filosofia a Roma. Fu interventista e partecipò con il grado di tenente al primo conflitto mondiale nelle file della Brigata Sassari, unitamente ad Emilio Lussu, un altro dei giovani destinato a diventare personaggio di primo piano negli anni della nascita del P.S.d`Az.
Bellieni fu il principale animatore di quell`ala politicizzata dei combattenti che spinse per la fuoriuscita dalle secche in cui ormai si trovava il movimento, prima della sua annessione al movimento fascista, e fu il primo direttore regionale dopo il congresso di Oristano che sancì, dopo una lunga gestazione, la nascita ufficiale del P.S.d`Az.
Storico e filosofo, uomo di grande cultura, e di grande spessore morale, Bellieni fu il teorico e il grande organizzatore del primo sardismo. Aveva fatto delle idee di libertà, di giustizia e di equità sociale, la sua religione civile, ed ha creduto fino alla fine di suoi giorni, nell`idea del riscatto morale e sociale della Sardegna, come un presupposto fondamentale per un riscatto morale e politico dell`Italia. Bellieni vedeva la Sardegna, per la sua posizione geografica e per la sua storia culturale, come il fulcro di un`alternativa politica ed economica mediterranea che si ponesse al centro dei blocchi politici e militari che si profilavano all`orizzonte dopo il primo conflitto mondiale.
Cristiano per cultura e laico nell`azione, liberale e antifascista, repubblicano e socialista, Bellieni compendiò i grandi filoni della cultura morale e politica europea nella dottrina dell`autonomismo federalista che niente ha da spartire con l`autonomismo speciale che ha dato vita, nel secondo dopoguerra, all`ancora vigente Statuto regionale della Sardegna.
L`autonomismo, nel linguaggio del Bellieni, è, alla lettera, capacità autodeterminativa degli individui e dei popoli che deve trovare la sua espressione politica nella potestà legislativa dell` “Ente Regione”. Al regionalismo italiano post-unitario mancava proprio la potestà legislativa e sovranitaria delle regioni.
Se la Sardegna è una nazione, questo è il ragionamento di Bellieni, essa è una nazione abortiva e sarà destinata a restare tale finchè non acquisterà la sua sovranità politica e la sua potestà legislativa al pari dello Stato.
Va da sé che, l`impianto centralista dello Stato italiano e neanche le blande proposte di decentramento amministrativo provenienti dalla destra e dalla sinistra storica, non erano sufficienti ad accogliere la visione regionalista del Bellieni e che, pertanto, si rendeva necessario riscrivere il patto tra le regioni e lo Stato. Un patto dove alcuni poteri sono demandati allo Stato centrale ed alcuni alle regioni.
In quest`ottica federale, dunque, si comprende e si spiega l`autonomismo sardista del Bellieni. Nessun separatismo, nessun massimalismo indipendentista appare più lucido e più radicale dell`autonomismo bellieniano. Nella sua concezione autonomista e federalista il termine “regione” sostituisce il termine “Stato”. La regione diventa Stato, se ne pone come sua parte integrante e costitutiva e, insieme ad altre regioni-Stato, configura il nuovo assetto di una moderna repubblica federale. Il nuovo Stato repubblicano dovrebbe essere costituito, nella visione del Bellieni, dalle diverse regioni che liberamente aderiscono alla costituzione del nuovo Stato federale, con pari dignità e con pari autonomia.
Solo in questa prospettiva la storia della Nazione Sarda avrebbe potuto trovare la sua dimensione statuale e quindi uscire da quella condizione di nazione abortiva in cui era venuta a trovarsi dopo la definitiva e tragica sconfitta subita dinanzi alle truppe aragonesi nelle colline del Marghine. Allo stesso tempo non sfuggiva al Bellieni l`inadeguatezza delle classi dirigenti sarde e italiane per la realizzazione di un progetto politico ambizioso quale era quello di una vera e propria rifondazione della Statualità e della politica, da cui l`esigenza della nascita di un nuovo partito e di una nuova classe dirigente con nuove consapevolezze ed in grado di assumere nuove responsabilità per la Sardegna, per l`Italia e per l`Europa.
Negli anni del fascismo, quando i partiti politici dovettero tacere, per via della dittatura mussoliniana, Bellieni insegnò filosofia e pedagogia a Trieste. Fu tra i protagonisti della ripresa democratica dopo la caduta del Fascismo, e fu fortemente critico nei confronti del nascente autonomismo che, certamente, non andava, come di fatto non andò, nella direzione da lui auspicata.
Morì a Napoli e la sua salma venne riportata a Sassari, dove è sepolta nel cimitero cittadino.
(Tracce biografiche tratte dal sito: http://www.psdaz.org)
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