Il Manifesto
Riforme, le ragioni dei resistenti
Andrea Fabozzi
«Io non ho mai chiesto al presidente della Repubblica di intervenire. Ma visto che ha deciso di farlo, mi sarei aspettato da lui un forte richiamo al rispetto delle procedure». Invece Giorgio Napolitano non ha detto quello che desiderava il senatore Vannino Chiti, diventato nelle ultime settimane il portavoce dei (non tanti) senatori che si oppongono alla riforma costituzionale del governo. Il capo dello stato non ha eccepito sui tempi contingentati, sul fatto che gli emendamenti dei relatori siano stati esplicitamente «vistati» dal governo ignorando persino le forme dell’autonomia parlamentare. Al contrario, Napolitano ha fischiato la fine della partita. Ha dato ragione a Renzi e alla sua fretta, e lo ha fatto in pendenza di una richiesta al presidente del senato di concedere più tempo per l’esame del disegno di legge costituzionale. Che così è rimasto nelle mani dei relatori — che lo emendano ancora, fino a ieri sera, concordando ogni passaggio con la ministra Boschi — che vogliono chiudere in commissione entro oggi e arrivare già domani o più probabilmente martedì prossimo in aula. Dove il «patto del Nazareno», firmato da Renzi e Berlusconi e controfirmato al Quirinale, può dirsi blindato.
I più ottimisti tra gli avversari della riforma immaginano di trasformare l’emiciclo di palazzo Madama — che nei piani di Renzi dovrà accogliere 100 tra consiglieri regionali e sindaci al posto dei 320 senatori che oggi lo abitano — in un «Vietnam». I numeri dicono purtroppo un’altra cosa: per quanti dissidenti potranno esserci nei due partiti contraenti del patto, non arriveranno a una quarantina tra Pd e Forza Italia, più qualche singola unità nei gruppi minori. Renzi non avrà la maggioranza dei due terzi, che però serve solo nelle ultime due letture e nel caso (improbabile) il presidente del Consiglio abbia paura del referendum confermativo. Avrà però una comoda e sufficiente maggioranza assoluta. L’ostruzionismo parlamentare, specie di un gruppo numeroso come i 5 stelle, potrà allungare un po’ la discussione, ma peserà soprattutto il richiamo di Napolitano a «evitare ulteriori spostamenti in avanti dei tempi».
Si annuncia una sit-in di protesta martedì. Ma se in aula sarà battaglia, quello che si è riunito ieri per tutto il pomeriggio a Roma è di certo il quartier generale delle truppe resistenti. Pochi senatori — Chiti, Casson, Mineo, Tocci, Mario Mauro — e molti costituzionalisti, tra i più autorevoli. L’associazione per la democrazia costituzionale e altre associazioni hanno chiamato a raccolta quelli che per Renzi, ma ormai anche per la sintesi dei giornali e tg, sono semplicemente i «frenatori». Del professor Alessandro Pace l’epitome di un articolato lavoro di analisi critica delle proposte del governo, così come si sono evolute negli ultimi mesi: «Questa revisione costituzionale, in coppia con l’annunciata legge elettorale maggioritaria, realizzerà una concentrazione di potere in una sola coalizione, per non dire in un solo partito, per non dire in un solo uomo, incompatibile con una democrazia liberale».
Molti gli interventi. Da Lorenza Carlassare che ha ricordato come tagliare la rappresentanza, anche quella delle liste non coalizzate che dunque sulla «governabilità» non hanno effetto, punti a tenere fuori dal parlamento interessi «non conformi», a Massimo Villone che ha spiegato come la forma di governo proposta dal governo vada molto al di là del semipresidenzialismo francese, perché in Italia si eleggerà «un leader con la sua maggioranza» senza contrappesi effettivi. Gaetano Azzariti ha illustrato le alternative possibili, una volta fatta la scelta del bicameralismo non paritario, al prescelto «senato delle autonomie», quella che è «la scelte più conservativa, fatta oltretutto fuori tempo massimo adesso che il personale politico delle regioni è tra i più squalificati». Tra le diverse «aporie della riforma costituzionale», come da titolo del convegno, Raniero La Valle ha segnalato anche il fatto che sarà la sola camera, e dunque in virtù della legge elettorale ultra maggioritaria un solo partito, a deliberare lo stato di guerra. E Gianni Ferrara ha delineato i contorni di un «regime elettorale autoritario» che, grazie a «un parlamento delegittimato che Napolitano avrebbe dovuto sciogliere», si avvia a fare dell’Italia, ancora una volta, il laboratorio di un nuovo sistema istituzionale dove tutto il potere è concentrato sulla prima minoranza. È forse questo quello che, davvero, ci chiede l’Europa?
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